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San Giovanni Battista, la parrocchia felice di papa Luciani



di Pina Baglioni


È una vecchia madre di montagna la pieve di San Giovanni Battista a Canale d’Agordo. «Che ha accompagnato per la strada della vita tanti figli», scrive nella prefazione a La Pieve di Canale d’Agordo don Andrea Tison, fino a cinque anni fa parroco del piccolo paese in provincia di Belluno. Da quando non era che una chiesina eretta sul Prà de san Zuanne, al centro della valle del torrente Biois, nel cuore delle Dolomiti. Presumibilmente tra il 1185 e il 1361.
Ne ha vista di gente incontrarsi e scontrarsi in mezzo a quel prato: l’invasione di Sigismondo, duca del Tirolo, nel 1487, quella del generale austriaco Felzer nel 1508, l’annessione dell’Agordino all’Impero asburgico nel 1797. E, più recentemente, le vittime della rappresaglia tedesca del 20 agosto 1944. Quel giorno, mai dimenticato dalla gente della valle, l’antica pieve avvolse di pietà e di dignità le salme dei caduti allineate tra le sue pareti.
Le gioie di questa mamma così vecchia sono state, però, di gran lunga superiori ai dolori: tra la sua immensa figliolanza di contadini, minatori, allevatori di bestiame e, dalla fine dell’Ottocento, emigranti, c’è stato chi ha percorso strade inimmaginabili. Albino Luciani, innanzitutto, il figlio prediletto. Accolto nel battesimo il 19 ottobre 1912, sessantasei anni dopo sarebbe diventato papa col nome di Giovanni Paolo I. E il padre gesuita Felice Cappello, nato a Caviola, a pochi chilometri da Canale, ma battezzato a San Giovanni nel 1879. Considerato ancora oggi uno dei più grandi canonisti del Novecento, ha conquistato il cuore di chi l’ha incontrato nelle vesti di “confessore di Roma”: per decenni, fino alla sua morte, nel 1962, centinaia e centinaia di persone ogni giorno, pazientemente, si mettevano in fila per confessarsi da lui nella chiesa di Sant’Ignazio. Per tutti e due, Luciani e Cappello, è stato avviato il processo di beatificazione.
C’è dell’altro: San Giovanni ha regalato al Vaticano II ben tre padri conciliari: Albino Luciani, ancora lui, allora vescovo di Vittorio Veneto, il padre generale dei Somaschi Saba De Rocco e il vescovo Giovanni Battista Costa, prelato di Porto Velho in Brasile, la cui famiglia era oriunda di Vallada-San Tomaso. L’attuale vescovo di Belluno, poi, monsignor Giuseppe Andrich è di Canale anche lui. E, tanto per dire, da San Giovanni sono usciti poco meno di centotrenta sacerdoti: cosa non da poco per una piccola pieve nascosta in mezzo alle montagne. E che razza di montagne! Forse le più belle d’Europa.
Canale d’Agordo, piccolo comune alpino di 1300 abitanti, è situato a 976 metri sul livello del mare, in pieno massiccio dolomitico. Circondato da un paesaggio stupendo, il paese resta incassato in una zona ombrosa, e il sole, che all’imbrunire colora meravigliosamente le cime del Civetta, del Pelsa, delle Cime d’Auta e delle Pale di San Martino, nei lunghi mesi d’autunno e d’inverno passa basso sull’orizzonte. L’estate è assai breve, solo due mesi. L’inverno arriva alla fine di ottobre e domina incontrastato fino ad aprile. Il paese sta proprio alla confluenza dei torrenti Biois e Liera, dove la bella val Garés si apre maestosa alla vista, lasciando intravedere sullo sfondo le stupende cattedrali dolomitiche delle Comelle e dei Lastéi. Basta poi volgere lo sguardo verso la Vallada Agordina, ed ecco il gruppo montuoso della Marmolada.
E anche se oggi Canale appare un po’ defilata rispetto ai vicini e lussuosi centri turistici come Falcade, Alleghe, Selva di Cadore e Agordo, le è comunque rimasto attaccato addosso un antico prestigio. Quello di essere «il centro culturale e religioso più importante della vallata», scrive lo storico Dario Fontanive nel già menzionato volume La Pieve di Canale d’Agordo. Per il suo aspetto rimasto quasi inalterato nel tempo, grazie a un centinaio di tabià, gli antichi fienili e i rustici che ancora mantengono del paese la tipica immagine alpestre che gli altri centri hanno purtroppo perduto per lasciare spazio agli hotel a cinque stelle.

San Giovanni Battista, il “motore” delle valli agordine
Ma Canale è Canale soprattutto perchè c’è San Giovanni Battista, «che è stata il motore di queste valli non solo da un punto di vista religioso, ma anche sociale e culturale. Grazie anche alla tenacia e alla fede del suo popolo e di alcuni suoi parroci» ci dice don Sirio Da Corte, arciprete di Canale d’Agordo ormai da cinque anni. Che si mette a ricordare con affetto e riconoscenza i suoi vecchi “colleghi”: «Don Antonio Della Lucia e don Filippo Carli per esempio: il primo, nel 1872, fondò qui a Canale la prima latteria cooperativa d’Italia, che promosse una forte collaborazione fra gli abitanti della valle del Biois. In seguito, su questo modello, fiorirono altre cooperative di consumo» racconta con passione don Sirio. «Questo straordinario sacerdote aveva formato, già nel 1868, il primo asilo rurale e parrocchiale della provincia di Belluno, tuttora attivo. Quando poi, alla fine dell’Ottocento, si allargò la piaga dell’emigrazione, don Antonio promosse una serie di iniziative di aiuto per chi lasciava la propria terra. Senza contare l’istituzione di biblioteche popolari. Ma non possiamo dimenticare la grande indole pastorale, l’umiltà, la concretezza di Filippo Carli, parroco di Canale dal 1919 al 1934. L’influenza di don Filippo Carli su Albino Luciani fu determinante. Non solo perché individuò immediatamente la sua vocazione. Albino acquisì la sua portentosa cultura classica anche perché, su consiglio di don Carli, nell’estate del 1931 catalogò la preziosa biblioteca della canonica di San Giovanni: 4000 libri, acquisiti a partire dalla metà del ‘400 fino al ventesimo secolo».
È una vera impresa parlare più di cinque minuti di seguito con don Sirio Da Corte. Il suo cellulare “bolle” e la nostra conversazione viene continuamente interrotta dai pellegrini che prenotano telefonicamente il tour ai luoghi della giovinezza di Giovanni Paolo I: la chiesa di San Giovanni, ovviamente, dove ricevette il battesimo, la prima comunione col fiocco bianco al braccio e la confermazione; e dove, più grandicello, partecipò alla vita della parrocchia come chierichetto e cantore, per poi tornarci novello sacerdote per la sua prima messa e infine da vescovo. La tappa successiva è il piccolo museo, annesso alla canonica, che ripercorre la vita del Papa; poi una pausa al negozietto con le immagini e i ricordi. Sta tutto a pochi metri, attorno all’elegante piazza cinquecentesca intitolata a Luciani. E a cinque minuti a piedi, in un susseguirsi di antichi tabià e di linde case di montagna dai balconi ricolmi di gerani di ogni colore e le mura affrescate coi santi protettori e la Madonna, ecco la casa natale del Papa, in vicolo Rividella 8.
Molti pellegrini però piombano a Canale senza preavviso e reclamano in quattro e quattr’otto la “spiega” da don Sirio. Non è esagerato dire che per farsi raccontare la storia di questa benedetta chiesa, è stato necessario barricarsi in canonica. «Un fenomeno che mi sorprende sempre da quando sono a Canale: non si può neanche immaginare quanta gente viene, in gruppo o alla spicciolata. Dall’estero soprattutto. Un fenomeno inatteso per un Papa di un solo mese, senza un’enciclica scritta, né un viaggio realizzato. È Luciani il gioiello più prezioso di questa antica chiesa».

La valle del Biois diventa cristiana: la chiesa di San Simon
Antica davvero, tanto che non esistono date certe sull’origine della chiesa di San Giovanni Battista. E prima di inoltrarsi nelle sue remote vicende, va raccontato un antefatto: alla fine del secolo VIII, mentre la dominazione longobarda in Italia si stava ormai spegnendo per lasciare il posto a quella dei Franchi, era arrivato nella valle del Biois un sant’uomo ormai stanco della vita militare: il pio Celentone. Si era rifugiato in un primo tempo nella rocca di Pietore, nella valle del Cordevole, poi tra i fitti e ospitali boschi del Biois. Celentone si era fatto subito ben volere dalle genti del luogo, molto probabilmente di origine nordica, che avevano trovato nei valichi del Valles e del San Pellegrino due porte di facile accesso per la valle del Biois.
Proprio sulla costa del monte, che successivamente prenderà il suo nome, Celentone, presumibilmente attorno al 720, aveva tirato su, in territorio di Vallada Agordina, una cappella dedicata agli apostoli Simone e Giuda Taddeo e aveva cominciato a predicare il Vangelo presso quei montanari, che, attratti dalla buona novella, avevano abbandonato i riti pagani per abbracciare il cristianesimo.
C’è anche una testimonianza di un certo Tolomeo che fa luce sull’antica cappellina: arrivato in valle per sfuggire ai Carnici, disse di aver trovato una chiesa sul monte Celentone e ne riportò alcune notizie, tra cui quella che nel coro si trovavano pitture raffiguranti gli antichi padri, dipinte su tavole di legno di gran valore. A quei tempi non si trovavano altre pitture di tal pregio se non a Trento, dove c’era una pala della Beata Vergine Assunta nella chiesa maggiore.
Ma il documento più importante è la bolla di papa Lucio III firmata a Verona il 18 ottobre 1185 dove si legge: «…Plebem de Augurde cum capellis suis. Capellam Sancti Simoni Canalis de supra. Plebem de supto cum capellis suis…». Qui vengono menzionate espressamente le chiese dipendenti dal pievano di Agordo, tra cui quella chiamata ormai dai valligiani “San Simon”. La cappella infatti era entrata in quell’orbita già verso la metà del secolo X, e si presuppone che un cappellano, dipendente proprio da Agordo, vi risiedesse, celebrasse le messe festive e venisse retribuito dalla popolazione. Si narra che intale periodo un vescovo di Belluno, andato nel 950 a visitare San Simon, abbia donato lo splendido calice medievale conservato ancora oggi. Anche gli abitanti di San Tomaso e di Alleghe dalla vicina alta val Cordevole se ne partivano a piedi per assistere alla messa a San Simon.

Da San Simon a San Giovanni
Andò avanti così per molto tempo, fin quando, verso la metà del secolo XIII, nella vicina val Garés – a sette chilometri dalla valle del Biois – vennero aperte delle miniere di rame, di ferro e di mercurio. Di conseguenza, cominciò a crearsi nel fondovalle un importante centro in cui veniva fuso il materiale estratto dalle cave dei monti Sass Néger e di Sàis, e dove venivano forgiati vari oggetti metallici. Il luogo prese allora il nome di Forno di Canale e divenne il centro economico più importante dell’Agordino. Prima di allora la vita del paese era stata sempre contrassegnata dal ritmo del lavoro dei campi e della fienagione, unico sostentamento delle numerose famiglie del luogo, che, soprattutto in tempo di carestia, pativano spesso la fame. Lo spirito di sacrificio e la fede profonda di quella gente generavano però una grande solidarietà. A dare una mano poi c’erano anche le confraternite, soprattutto quella della Beata Vergine dei battuti che aveva la sua sede proprio accanto a San Giovanni. Anticamente sorta accanto a San Simon, si era poi trasferita a Forno. Sua cura era quella di dare cibo e alloggio ai viandanti, per non più di tre giorni. Anche la vita politica si sviluppava in maniera solidale, grazie al sistema delle regole – molto somigliante agli odierni comuni – che concedeva poteri e dignità uguali per tutti i capofamiglia. Il paese si chiamò Forno fino al 1964, quando divenne Canale d’Agordo.
In quell’epoca bassomedievale di grandi trasformazioni politico-sociali, la gente di Forno cominciò a pretendere che San Giovanni avesse un sacerdote stabile per venire incontro in maniera adeguata ai bisogni spirituali della popolazione. Il primo documento certo che segnala l’antica chiesa è del 1361. A quel tempo aveva una sola navata, il coro era tutto dipinto, illuminato da quattro finestre. Sulla parete meridionale esterna si innalzava il campanile e accanto alla chiesa, sul Prà de san Zuanne, si estendeva il cimitero.
Accadde allora che il cappellano della più antica San Simon scendesse dal monte Celentone e andasse a risiedere a Forno, e fu così che San Simon e San Giovanni furono accorpate in un’unica entità giuridica, chiamata cappellania, cioè una sorta di parrocchia quasi del tutto autonoma dalla pieve di Agordo: mentre a San Simon si celebrava e si continuava a seppellire i morti, a San Giovanni si amministravano il battesimo e il matrimonio e si officiavano i riti più importanti dell’anno. Ma i problemi erano tutt’altro che risolti: intanto perchè il salario riservato al cappellano di San Simon e di San Giovanni era assai magro e allora, prima o poi, il sacerdote assegnato all’incarico non vedeva l’ora di andarsene. Quando poi, se ne trovava uno, erano le piene del fiume Biois a impedire l’accesso in valle. Senza contare che l’arcidiacono di Agordo era solito richiamare in sede il cappellano quando e come voleva. A quel punto, non rimaneva che chiedere aiuto al Papa.

San Giovanni Battista
diventa pieve
Come scrive Loris Serafini, archivista della parrocchia di Canale, in un bel libricino del 2003 realizzato per iniziativa delle parrocchie della valle del Biois, Sui passi dell’arte e della fede in Valle del Biois. Itinerari tra le chiese dell’antica Pieve di Canale d’Agordo: «Nel 1431 il cappellano di San Simon e di San Giovanni, Giorgio da Bamberga, fecendosi carico delle richieste degli abitanti della valle del Biois, era sceso a Roma per chiedere al Papa la costruzione di una nuova parrocchia totalmente indipendente da quella di Agordo. Ma il sacerdote morì durante l’interminabile viaggio. Così toccò al sindaco della valle Vendramino Mot, nel 1458, presentare con insistenza la petizione al nuovo papa Callisto III». Il Papa accettò e il 4 maggio del 1456 decretò l’erezione a pieve della cappella di San Giovanni Battista: ultima pieve nella diocesi di Belluno eretta direttamente dal Papa. La decisione fece infuriare l’arcidiacono di Agordo Nicola Bertone, che vedeva sfuggirgli di mano una parte molto ampia e redditizia del proprio territorio. Egli tentò in tutti i modi di ostacolare l’iniziativa. Ma il Papa ormai aveva deciso. E il 3 settembre 1458 la gente della vallata si radunò davanti a una grande cattedra costruita appositamente per l’occasione e il vicario del vescovo salì su di essa. Allora tutti i capofamiglia della valle, con il sindaco in testa, giurarono solennemente di impegnarsi per la vita e la crescita della nuova comunità. La nuova pieve era finalmente una realtà anche da un punto di vista giuridico: quindici centri abitati, tra paesi e frazioncine, per un totale di quattromila anime, dipendevano spiritualmente da San Giovanni Battista. Quel 3 settembre del 1458 le campane suonarono a stormo e tutti i parrocchiani e le confraternite con i loro gonfaloni cantarono con gioia il Veni Creator, unendosi in una processione che si svolse attorno al sagrato della chiesa.
«Da allora iniziò un cammino comunitario» scrive ancora Serafini «che unì tutta la valle per lunghi secoli, ponendo le basi per lo sviluppo sociale, culturale e religioso dei nostri paesi, in cui si irrobustì uno spirito di solidarietà e di condivisione». Nel corso dei secoli il primato religioso di San Giovanni crebbe in modo tale che, all’inizio del Settecento, il pievano diventerà vicario foraneo di tutte le parrocchie dell’alto Agordino ad esclusione di Cencenighe, un paese a pochi chilometri a sud di Canale.

Il popolo abbellisce San Giovanni
Dopo quel giorno memorabile il popolo della pieve fece di tutto, anche togliersi il pane di bocca, per rendere sempre più bella e degna del nuovo status San Giovanni Battista: il 28 luglio del 1472, il vescovo di Belluno Piero Barozzi consacrò l’altar maggiore e i due laterali della Beata Vergine dei battuti e di san Sebastiano. Quasi cento anni dopo, San Giovanni subì la sua prima grande trasformazione architettonica con la costruzione delle due navate laterali sotto forma di cappelle comunicanti tra di loro. Il vecchio altare maggiore fu sostituito con uno in pietra, chiuso dentro una custodia di legno. Sovrastava l’altare, addossato alla parete, un trittico gotico descritto come: «ex sculpturis ligneis elegantibus, deauratis probe…Germanicis artificis»: un preziosissimo Flügelaltar di fattura tedesca. Nel mezzo c’era la Madonna con Gesù Bambino sulle ginocchia, a destra san Giovanni Battista e a sinistra san Simone. In alto un coronamento architettonico rappresentava la Crocifissione del Signore. Chiudevano lo stipo del trittico i due battenti: quello di destra portava scolpite le immagini di san Lorenzo, san Sebastiano, san Niccolò, san Martino. A sinistra san Michele, sant’Antonio, san Rocco e un santo ignoto. Nel 1613 il vescovo Luigi Lollino ordinava di costruire un tabernacolo e di collocarlo sull’altar maggiore per riporvi il Santissimo Sacramento.
Insomma, all’inizio del Seicento, San Giovanni Battista poteva considerarsi proprio una bella chiesa: aveva ben nove finestre e in alto, nella navata mediana, occhieggiavano sei piccoli rosoni. Davanti alla porta maggiore si protendeva un portico. Erano stati innalzati nuovi altari laterali: entrando in chiesa, subito a sinistra, quello dedicato a santa Lucia, e dal 1675 l’altare di sant’Antonio da Padova. A destra, invece, era comparso l’altare del Santo Rosario, consacrato dal vescovo Giovanni Delfino il 4 settembre 1626. Tredici anni dopo fu costruita l’attuale cantoria che ospitò un organo, il parvum organum, dal 1662. Purtroppo, il 29 agosto 1741, la chiesa venne danneggiata da un incendio e restaurata nei due anni successivi: al posto degli altari di san Sebastiano e di san Niccolò, andati distrutti, furono innalzati quelli del Corpus Domini e delle anime purganti. Quest’ultimo fu impreziosito con due cariatidi scolpite dal famoso artista Giovanni Marchiori: il Tempo e la Morte, ora custodite in una cappella della chiesa. In quello stesso periodo fu rinnovato il campanile: la vecchia guglia ghibellina fu sostituita da quella “a cipolla” che ammiriamo ancora oggi.
Ma nel 1739 era arrivato a San Giovanni un pregiato organo realizzato dall’organaro veneziano Gaetano Callido, famoso in tutto il Veneto e non solo, che andò a sostituire quello secentesco. L’organo, con 800 canne e 19 registri, fu portato a Canale con un carro trainato da buoi e collocato nella cantoria costruita sopra la porta principale: la prima volta che si udirono le sue note fu in occasione della festa patronale del 24 giugno 1801 e fu suonato dal figlio di Gaetano, Agostino Callido. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, Albino Luciani, patriarca di Venezia, ricorderà il fascino di quella musica d’organo: «A Canale io sono stato fanciullo di famiglia povera. Ma quando, entrando in chiesa, sentivo l’organo suonare a piene canne, dimenticavo i miei poveri abiti, avevo l’impressione che l’organo salutasse me e i miei piccoli compagni come altrettanti principi. Di qui la prima vaga intuizione, diventata in seguito certezza convinta, che la Chiesa cattolica non è solo qualcosa di grande, ma che fa grandi anche i piccoli e i poveri, onorandoli e innalzandoli». A ricordarci le parole del Papa è un commosso don Sirio: «Luciani, attraverso quelle parole straordinarie, ci ha ricordato che i poveri non hanno fame solo di pane, ma di bellezza e di dignità. E che santa madre Chiesa ci dà anche questo».
E questo fu così vero a Canale che, nel 1859, l’arciprete di San Giovanni, don Agostino Costantini, altro grande parroco, non pago delle già numerose migliorie apportate alla chiesa, pensò bene di chiamare un grande architetto, il feltrino Giuseppe Segusini, a progettare il nuovo interno e la facciata della chiesa, che oggi ammiriamo a tre navate in stile neoclassico. Sulla facciata venne incastonato un medaglione in terracotta di Valentino Panciera Besarel che rappresentava il Battesimo di Gesù nel Giordano.
All’interno di San Giovanni, subito a destra, don Sirio ci indica il fonte battesimale in pietra, con la piramide di legno realizzata nel 1933 dallo scultore di una certa fama Amedeo Da Pos. Accanto, una grande lapide riassume la vita di Luciani. L’ultima riga recita: «eletto Papa con il nome di Giovanni Paolo I, morì in Vaticano il 28 settembre 1978 dopo un breve intenso splendido pontificato».

L’umiltà del Papa del sorriso: l’angolino dei pellegrini
L’elegante pulpito ottocentesco; la cappella della Beata Vergine del Rosario; la pregiata statua lignea di sant’Antonio di Amedeo Da Pos; l’imponente altar maggiore che racchiude una pala di Antonio Longo, dipinta tra il 1808 e il 1820, raffigurante san Giovanni Battista vox clamantis in deserto. Uno dopo l’altro, il parroco ci segnala i doni che, nel corso dei secoli, il popolo di Canale ha offerto alla sua chiesa. Pare sia il tabernacolo l’opera d’arte più preziosa, realizzata da Andrea Brustolon, grande scultore zoldano, nel 1696. Vi sono raffigurati Cristo Risorto, san Simone, san Lorenzo e la Deposizione.
«Vorrei richiamare l’attenzione però sull’altare eseguito da Dante Moro di Falcade», suggerisce don Sirio. «Quest’altare, inaugurato da Giovanni Paolo II nella sua visita apostolica a Canale il 26 agosto del 1979, a un anno dall’elezione di Luciani, sta particolarmente a cuore alla gente della valle del Biois. In quell’occasione, la comunità parrocchiale fece una richiesta esplicita all’artista: l’opera non doveva trasudare retorica, ma rispecchiare il più possibile la personalità di Luciani. E l’artista ha lavorato col cuore: nella parte sinistra, infatti, si vede la mamma, Bortola Tancon, insegnare il catechismo al suo bambino e poi c’è Albino che lavora per i campi e più avanti fa lezione di catechismo ai ragazzini di Canale. Sullo sfondo si vede la chiesa di San Giovanni Battista. A destra c’è raffigurata la sua vita da vescovo, questa volta con la cupola di San Pietro che fa da sfondo. Seguono le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Quest’ultima, soprattutto, ricorda le quattro catechesi che Giovanni Paolo I tenne, proprio sulla carità, in quei trentatré giorni di pontificato. Ma la più bella di tutte è la scena centrale», dice don Sirio. «Gesù che consegna le chiavi del Regno dei Cieli a Luciani. Con la colomba dello Spirito Santo che osserva dall’alto. È bellissimo il gioco delle mani: perché il Signore con una mano gli dà le chiavi e con l’altra sostiene quella del Papa che le accoglie fiducioso, sorridente. Sembra che nostro Signore gli dica: “Non avere paura che ci sono io a pensare a te”».
Il viaggio all’interno della chiesa-madre di queste affascinanti valli dolomitiche si sta per concludere. Don Sirio ci conduce, a ritroso, verso l’uscita: ancora il bel Crocifisso di Benedetto Da Pos, poi l’altare della Madonna di Lourdes, la cui statua fu acquistata nel 1900 per l’Anno Santo, e quello di Santa Lucia.
E infine, ancora lui: papa Luciani. Stavolta rappresentato in una statua bronzea, inaugurata il 26 agosto 1982, fusa dallo scultore di Vittorio Veneto, Riccardo Cenedese. È intitolata L’umiltà del Papa del sorriso e rappresenta Giovanni Paolo I che affida la sua mitra a un bimbo. Accanto alla statua è esposta una pagina della Liturgia delle Ore, tratta dal libro personale di Luciani: il defunto vescovo di Belluno, Vincenzo Savio, quando, nel 2003, si aprì il processo di beatificazione di Giovanni Paolo I, il giorno della festa di Cristo Re, chiese alla Congregazione delle cause dei santi di poter distribuire tutte le pagine del libro del papa alle parrocchie della diocesi di Belluno.
«Questo è l’angolino più caro alla gente», ci confida don Sirio. «Dal febbraio del 2001 ho fatto mettere dei grandi quaderni su cui i pellegrini potessero fare le loro richieste ed esprimere i loro pensieri al Papa. Ormai ne sono stati riempiti ventidue. Fitti fitti. Sono soprattutto ringraziamenti che riguardano per la maggior parte la famiglia: un lavoro trovato, gravidanze difficili risolte con nascite felici. Quante mamme con i bimbi in braccio vengono fin qui a ringraziare per l’intercessione di Albino Luciani. Basta osservare gli ex voto ai piedi della statua: vestitini bianchi del battesimo, golfini, scarpine, fiocchi azzurri e rosa. Tutti quelli che vengono – e sono migliaia – mi confidano di vedere nel Papa qualcosa di straordinario».




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