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Tratto da IL TESORO CHE FIORISCE

L'ULTIMO DESIDERIO DI ZHENG



di Gianni Valente


San Pietro e parecchi dei suoi compagni erano pescatori. Come lo sono buona parte di quelli che popolano l’hutong sulla riva del fiume Min, il reticolo di casupole basse e malmesse che circonda la vecchia cattedrale di mattoni grigi nel centro di Fuzhou. Un’enclave di Cina vecchia sopravvissuto chissà come alle ruspe e ai grattacieli a capitale misto che in pochi anni hanno cambiato la pelle e l’anima di questa come di tante altre città dell’ex Celeste Impero.
Fuzhou, il capoluogo della provincia del Fujian, è vicino al mare, sulla costa sudorientale della Cina. Proprio lì davanti ci sono i cugini degeneri di Taiwan. Anche per questo qui la Cina capital-comunista si gonfia il petto, dà sfoggio dei trofei raggiunti nella febbrile corsa al futuro. Sul ponte che scavalca il fiume Min gli occhietti vispi di Deng Xiaoping su un megacartellone sembrano seguire divertiti le peripezie equilibriste dei suoi epigoni. Affannati a far quadrare i conti tra i vecchi arnesi dell’ideologia e i processi incontrollabili innescati dalla modernizzazione economica.
In mezzo a questo mondo che cambia, alle quattro e mezza del mattino sta appena albeggiando quando, come ogni giorno, Giuseppe Zheng Changcheng si siede nel suo confessionale. Tutt’intorno, il quartiere dei pescatori si riempie a poco a poco dei rumori del risveglio. Cominciano a sferragliare i carretti e le biciclette. Arrivano, con le loro enormi sacche, i mercanti di verdura e pesce seccato. Anche la cattedrale, lentamente, si anima di gente. In tanti – pescatori, donne, vecchietti, qualche studente – prima di cominciare, passano da lui. Dal vecchio vescovo con le guance scavate, smagrito come uno stecco, che nei suoi novant’anni di vita le ha viste tutte. E che pure ha davvero un cuore di ragazzo quando ringrazia ogni mattina Iddio che rende ancora lieta la sua quasi centenaria giovinezza. Svuotano al di là della grata il cesto pieno dei propri peccati. E si dissetano con un sorso di misericordia, prima di ricominciare la giornata. Quando, prima delle sei, dopo il rosario e le preghiere comincia la messa, tra i banchi ci saranno cinquecento persone. E non è domenica, è un giorno feriale qualunque.
Che vuol dire aver attraversato quasi tutto il XX secolo in Cina, portando il nome cristiano? I cattolici disseminati in tutta la Cina saranno al massimo una dozzina di milioni. Una goccia d’acqua nebulizzata nel mare di quasi un miliardo e mezzo di cinesi più o meno confuciani, buddisti, scintoisti, tranquillamente agnostici, con qualche residuato di ateismo militante. E lui è il primo cristiano della sua stirpe. Se racconta la sua storia, ricorda che tutto partì con un battesimo mancato.
«Mio padre era di una ricca famiglia buddista. Ma nel suo cuore si era convertito alla fede cattolica. Poi s’ammalò d’improvviso. Chiese di essere battezzato, ma la povera suora che abitava nel villaggio credeva che soltanto i preti potessero dare il battesimo. Prima di morire, papà si fece promettere dalla mamma che ci saremmo battezzati tutti».
Così capitò che il piccolo Changcheng incontrò il cristianesimo come una cosa nuova, inaudita. Non deducibile dalle costruzioni culturali e religiose della sua gente. E, con una partenza esuberante, a dodici anni finì in seminario. Offerto alla Chiesa come un ex voto, «per ringraziare la Madonna che quando ero bambino mi aveva salvato da una malattia mortale».

«Bisogna che il Papa lo sappia...»
Passare una giornata con Zheng, farsi raccontare la sua storia, vuol dire ripercorrere tutta l’avventura terribile e bellissima che il parvus grex dei cattolici cinesi ha attraversato nell’ultimo secolo. Lui ricorda tutto. Ricorda il tempo della giovinezza, passato tra Fuzhou, Shanghai e Hong Kong. Tra i manuali di latino e quelli di dogmatica. Ricorda i professori e i superiori provenienti da terre lontane. Tanti ricordi belli. Qualcuno no. «Il Papa lo deve sapere», dice oggi monsignor Zheng, «che non tutti i missionari stranieri ci hanno trattato sempre bene». Erano gli anni in cui i più avveduti cominciavano a dire che bisognava affidare ai cinesi la Chiesa di Cina. «Il grande Pio XI aveva capito che quella era la strada. E nel 1926 aveva nominato i primi vescovi cinesi». Ma molti missionari non erano d’accordo. Il giovane Zheng, fatto prete a soli ventidue anni con una dispensa per l’ordinazione così precoce, dal ’41 era diventato professore al seminario del Fujian e segretario del vescovo spagnolo. E non ha dimenticato certi atteggiamenti coloniali di alcuni suoi superiori occidentali. «Dicevano che, se da Roma si ostinavano a consacrare vescovi cinesi, loro ci avrebbero lasciato senza aiuto. Qualcuno di loro ci trattava come dei cristiani di ultima casta. Si rifiutavano di sedere a tavola con noi». Ad allargare il fossato ci si metteva anche la politica e la soggezione di alcuni missionari europei agli interessi della propria nazione d’origine. «Quando i giapponesi at­taccarono la Cina, molti dei nostri superiori stranieri parteggiavano per gli invasori. Fu una cosa che mi rattristò molto».
Zheng ricorda anche di quando, con la conquista di Nanjing nel ’47, si capì che il governo nazionalista di Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek) era alla fine. I detentori del nuovo “mandato celeste” per governare l’intero Paese di Mezzo erano i comunisti, proprio quelli che dicevano che il cielo era vuoto di ogni Dio.

Zheng il sovversivo
La Cina era un Paese devastato. Anni di guerra civile, poi l’invasione giapponese, la Seconda guerra mondiale, poi di nuovo la guerra civile. Quando con la riforma agraria comincia il sequestro delle proprietà ecclesiastiche, si intuisce subito che la mossa successiva dei vincitori verso la Chiesa sarà la pulizia etnica contro missionari e vescovi stranieri (questi ultimi costituivano l’80% dell’episcopato) con l’accusa di connivenza col nemico imperialista. A Fuzhou, come nel resto della Cina, ci si prepara a parare il colpo. Quando il vescovo spagnolo viene arrestato e poi espulso, Zheng è già stato nominato vicario diocesano, col compito di prendere la guida della diocesi. Ma anche per lui i problemi cominciano presto. Nel ’51 intanto avevano già cacciato il nunzio Antonio Riberi, di cui si conoscevano la vena anticomunista e le simpatie per i nazionalisti sconfitti. «Mi chiesero di appoggiare la campagna orchestrata contro Riberi, che lo dipingeva come una spia del Vaticano. Io diffusi per tutta la diocesi una dichiarazione, in cui informavo il popolo che il governo aveva espulso il nunzio perché era contro il comunismo. Riconoscevo legittima la decisione del governo, ma rifiutavo di sottoscrivere le accuse infamanti a Riberi». I funzionari di partito non rimasero soddisfatti. Interrogarono Zheng per venticinque giorni. Poi lo lasciarono in pace per un po’ di tempo. Ma nel ’55 lo arrestarono con l’accusa di cospirazione anticomunista attraverso la religione. «All’inizio mi promisero di liberarmi se avessi pure io attaccato Ignazio Gong Pinmei, il grande vescovo di Shanghai che avevano arrestato e volevano colpire con una punizione esemplare. Dissi che Gong era stato il mio professore e che per me era innocente. Mi chiesero cosa pensavo del Papa e del Vaticano. Risposi che per me il Papa era solo il successore di Pietro, ed io ero in comunione con lui. Allora processarono anche me. Dicevano che tenevo nascosti in chiesa i fucili per i controrivoluzionari». Anche per Zheng si aprirono le porte dei laogai, i campi di rieducazione. Ci rimase fino al 1983.

In manus tuas, Domine
Nel primo campo in cui fu sbattuto non si lavorava. In compenso, la dieta sembrava studiata apposta per assottigliare le file degli ospiti. Ne crepavano una decina al giorno, per fame o per avvelenamento. Zheng resisteva. Allora lo mandarono nel campo di lavoro, nella provincia dello Jiangxi, dove rimase fino alla fine. I primi quaranta giorni lo misero in una cella piena d’acqua, un altro sistema per selezionare i nuovi arrivati. Poi, visto che era sopravvissuto, cominciò a lavorare nei campi di riso e di granturco.
Nel campo c’erano anche tre preti e tre altri vescovi. Fu quello, per Zheng, il dono inatteso che Dio gli metteva tutti i giorni davanti agli occhi in quel tempo così lungo. Quando parla di allora, anche Zheng come molti dei suoi compagni di pena non accenna al minimo autocompatimento vittimista. Di quel tempo infinito, quasi trent’anni di laogai, Zheng racconta immagini di imparagonabile leggerezza: «Lavorando nei campi, cantavamo insieme, così ci facevamo coraggio». Si ferma un attimo, e dal suo corpo esile esce una voce sostenuta, che intona l’antica litania: «In manus tuas, Domine, in manus tuas commendo spiritum meum...». Poi riprende il racconto: «Ci pensi? Tutta la Chiesa, in quel posto e in quel momento eravamo noi poveretti. Noi eravamo gli unici testimoni di Cristo. Pregavamo ogni giorno la Madonna di non perderci, di aumentare la nostra poca fede. Senza di Lei è impossibile fare qualcosa».
Adesso bisogna immaginarselo, il campo di lavoro che riecheggia delle giaculatorie in latino. Il miracolo di uomini liberi nelle catene. Ma allora i compagni di lavoro questo spettacolo contagioso lo vedevano tutti i giorni. Alla fine, nel campo c’erano più di cento nuovi battezzati. «Bisogna che il Papa lo sappia: in quella condizione, anche il celibato ci favorì. Gli altri, oltre al resto, erano schiacciati anche dalle preoccupazioni per la sorte delle mogli e dei figli».

Rigidezze canoniche
Quando, nell’83, uscì dal campo, un bel pezzo di vita ormai era andato. Ma per tutto il popolo cinese, e non solo per i cristiani, la fine dell’incubo della Rivoluzione Culturale era come un nuovo inizio.
Il governo cominciò a restituire alla Chiesa i beni confiscati. I fedeli, molti preti di Fuzhou e i funzionari locali premevano perché fosse lui ad assumere la guida di quella diocesi a cui era destinato fin degli anni Cinquanta, prima della grande tribolazione. Lui pose alcune condizioni: poter dichiarare pubblicamente la comunione col Papa; potere lavorare senza eccessive ingerenze dell’As­so­ciazione patriottica, l’organismo con cui il go­verno controllava la vita della Chiesa; ottenere che i preti che si erano sposati durante la Rivoluzione Culturale si astenessero dall’esercizio del loro mini­stero. Le sue condizioni all’inizio furono respinte, e Zheng se ne tornò a casa. Dopo tre anni, quelli del governo tornarono alla carica, dicendo che avrebbero tollerato la pubblica confessione di comunione col successore di Pietro.
Allora una lettera partì per Roma.
Visto che il governo aveva accolto la più importante delle sue condizioni, Zheng chiedeva se era lecito per il momento mettere da parte le altre due. Il successore di Pietro gli rispose che erano questioni delicate, che era difficile per lui giudicare e dare indicazioni da lontano. Lo invitò a fare ciò che in coscienza riteneva più opportuno per il bene della Chiesa.
Zheng prese tempo, pensandoci su per parecchi anni. Poi, nel ’90, decise di accettare la nomina a vescovo di Fuzhou riconosciuto dal governo. «Lo feci seguendo la mia coscienza, pensando di far bene per la Chiesa». Confessò subito pubblicamente la sua comunione col Santo Padre. E fece arrivare a Roma una lettera per chiedere di essere riconosciuto come vescovo legittimo della diocesi.
Ma ci fu un intoppo. In quegli anni a Fuzhou era già stato consacrato in segreto un vescovo non riconosciuto dal governo. Grazie a sue conoscenze ecclesiastiche ad Hong Kong, il vescovo clandestino aveva già ottenuto la legittimazione canonica. E secondo la legge della Chiesa – gli risposero da Roma – in ogni diocesi può esserci un solo vescovo.
Sembrerebbe un paradosso dell’ingratitudine, questo rifiuto che fa di Zheng un vescovo riconosciuto dai governanti cinesi ma non dal Papa. E lo espone al sospetto di essere uno scismatico, dopo aver passato trent’anni nel lager per fedeltà alla Chiesa.
Fu un brutto colpo. Ma anche il dolore di questa incomprensione Zheng lo smorzò dentro l’impeto di quel nuovo inizio. C’era da festeggiare, da ringraziare. Il buon Dio era rimasto fedele alla sua promessa, e nel tempo della prova aveva custodito la fede dei poveri peccatori. Zheng pensò a qualcosa di grande, che reggesse il confronto con le misure esagerate della Cina. E si ricordò di quello che facevano i padri. Di quando si costruivano le chiese perché la guerra o la carestia erano finite.

La rosa e i sassi
Longtian, vicino a Changle, è il villaggio natale di Zheng. Chi percorre la piana non fa fatica a incontrare con lo sguardo la mole bianca del santuario disteso sul fianco della montagna. Una scritta a ideogrammi alti due metri avverte che si è arrivati alla Città della Rosa.
È questa la chiesa della lode e del ringraziamento. Zheng l’ha inaugurata da meno di due anni, dedicandola a Maria Rosa Mistica. Un titolo che riecheggia le litanie alla Madonna. Ma richiama anche una devozione mariana partita da Montichiari, in provincia di Brescia, alla fine degli anni Quaranta, quando Maria apparve a un’infermiera per richiamare le anime consacrate a ritornare allo spirito dei santi fondatori, se non si volevano veder svuotati in pochi anni i seminari e le congregazioni religiose. Alla veggente la Madonna apparve con tre rose sul petto, spiegando che erano un richiamo alla preghiera, alla penitenza e al sacrificio.
Adesso quella devozione, che in Italia ebbe qualche problema coi vescovi, si diffonde per vie misteriose e fortuite anche in Cina. La Madonnina con le tre rose la si incontra in parrocchie, ospizi, seminari. Ma nella Città della Rosa non c’è solo lei. Il giardino che circonda l’enorme chiesa è un tripudio di tutte le devozioni e le preghiere semplici che per secoli hanno custodito la fede del popolo cristiano. Zheng ha cercato di non dimenticare nessuno. Ha disseminato per balze e terrazze le statue un po’ naïf di Cristo Re, di Cristo risorto, di santa Teresina di Lisieux (che per lui è la più cara), di san Francesco. C’è la Madonna di Lourdes, anche qui presso una piccola fonte. C’è Maria addolorata che abbraccia sotto la croce il corpo di Gesù. C’è una Via Crucis con statue ad altezza naturale, che si arrampica lungo l’erta che porta al santuario. Sullo spiazzo davanti alla facciata, un muro regge i bassorilievi con i misteri del Rosario. C’è anche una lastra con sopra incisa la traduzione in cinese dell’inno di Dante alla Madonna. Un’altra scritta sul fianco di un grosso blocco di marmo esorta: «Dopo che abbiamo seguito Gesù per 14 stazioni della Via Crucis, adesso guardiamo sua Madre». Ed è davvero tutto uno spettacolo per gli occhi. Basta camminare, e si imparano tutti i misteri della fede. Si hanno negli occhi tutte le storie di Gesù, di Maria, dei santi.
Il governo gli ha fatto anche i complimenti. Quando hanno saputo quanto è costato tutto questo quattro milioni di yuan, più o meno un miliardo di lire, grazie al lavoro gratuito offerto dagli artigiani e alla gestione oculata di Zheng, hanno ammesso sorpresi: «Noi, per un’impresa del genere, avremmo speso quattro volte di più». Uscendo, una targa avverte: «Questo è un luogo sacro alla fede cattolica. I cittadini che non sono cattolici sono tenuti a rispettarlo». E qui c’è la parte dolorosa della storia. Perché finora le uniche pietre contro i cancelli e le insegne della Città della Rosa le hanno scagliate altri cattolici.

L’ultimo desiderio
Più della metà dei 250mila cattolici del Fujian non frequenta le parrocchie che il governo ha consentito di riaprire. Essi sono guidati dal vescovo e da sacerdoti che rifiutano ogni contatto e ogni controllo dell’Associazione patriottica e dell’Ufficio per gli affari religiosi.
Questa, per Zheng, è la cosa più dolorosa: una buona parte dei preti della diocesi non lo riconosce come il loro vescovo. Alcuni lo accusano addirittura di non essere fedele al Papa e alla Chiesa. Lui ha provato più volte la via della riconciliazione. Ha bussato alla porta del vescovo che il governo non riconosce, promettendo di farsi da parte, se l’altro avesse accettato di emergere dalla clandestinità e di assumere pubblicamente, davanti a tutti, la guida della diocesi. Ma la porta è rimasta chiusa. E siccome la Chiesa è fatta di poveri peccatori, Zheng non si scandalizza se alcuni (solo alcuni) sacerdoti cattolici della comunità clandestina del Fujian hanno assunto un atteggiamento un po’ da fanatici. E girano le campagne a spargere veleno tra i fedeli, predicando che chi frequenta le chiese “aperte” rischia la scomunica e l’inferno. E che le preghiere, le messe e i sacramenti celebrati nelle parrocchie registrate presso l’Associazione patriottica non hanno nessun valore, sono solo parodie sacrileghe. Qualcuno di loro, qui nella diocesi di Fuzhou, ha anche fatto un blitz dimostrativo con lancio di pietre contro il muro di cinta della Città della Rosa.
Zheng attende che il Signore guarisca anche questa ferita. Nel frattempo, ogni tanto, bisticcia coi funzionari del governo. Nel duemila, quando Pechino attaccò la Santa Sede per la canonizzazione dei martiri cinesi, il vecchio Zheng andò a sbattere i pugni sul tavolo dei dirigenti locali, e al santuario di Maria Rosa Mistica, ancora da inaugurare, mise fuori la bandiera vaticana. Gliela fecero pagare, minacciandolo di far chiudere il santuario prima ancora che si aprisse alle visite dei fedeli. Ma poi le cose si sono calmate. E adesso lui spera di avere una proroga, sullo scorcio di vita che gli rimane, per realizzare qualcuno dei mille progetti che gli suggerisce la sua fantasia di ragazzo: l’ospizio per i vecchi, una casa per le suore, la biblioteca coi libri di Giulio Aleni, il missionario gesuita che nel Seicento portò l’annuncio cristiano da queste parti... Per il resto, continua la sua vita traboccante di messe, confessioni, lezioni di catechismo, adorazioni eucaristiche, unzioni dei malati. Se gli chiedi cosa possono fare i cristiani lontani per la Chiesa di Cina, risponde che basta qualche Ave Maria, e che sarebbe utilissimo aiutare in qualsiasi modo l’inizio delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese.
A guardarlo, questo patriarca con gli occhiali e le spalle curve, si ha l’immagine di cosa è il cristianesimo, qui e dappertutto. Un cuore giovane che non si è perduto. Un’inermità custodita da un Altro. E l’impressione si conferma, quando confida il suo desiderio più intimo, l’ultima cosa che aspetta per morire contento. «Vorrei che il Papa mi mandasse una lettera, un messaggio, un biglietto, insomma qualcosa per dirmi che sa che tutto quello che ho fatto, con tutti i miei errori, l’ho fatto per il bene della Chiesa. Sarebbe come se tutta la Chiesa mi dicesse: non ti preoccupare, lo so che mi hai voluto bene». Mentre parla così, sul muro della canonica, proprio sopra la sua testa, accanto al crocifisso, la foto di un papa Wojtyla giovane ammicca sorridendo.


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