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Testo della lezione




don Giacomo Tantardini

Ringrazio Massimo dei suggerimenti che ha offerto e in particolare dell’ultima domanda. Perché è proprio vero che un incontro umanamente attraente, un’esperienza umanamente positiva rende curiosi di tutto, rende attenti a tutto. È la paura che chiude, mentre è la letizia del cuore che apre. Quando un bambino è impaurito, si chiude; quando è lieto per il conforto di presenze buone che ha vicino, è libero, si apre a tutto. Se quindi problematicità vuol dire apertura a tutta la realtà, a ogni incontro, Agostino è esempio mirabile di tutto questo. Il De civitate Dei è stato definito come un libro-foresta, una foresta immensa in cui possiamo ritrovare anche tutte le cose che in quel momento erano oggetto di dialogo culturale e politico.
Il De civitate Dei è suggerito dalla problematica posta dalla grande tragedia dell’agosto 410, quando Roma viene saccheggiata dai barbari di Alarico. Mi ha colpito che il cardinal Ratzinger nel suo libro su sant’Agostino, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino1, che se non sbaglio è la sua tesi di dottorato tradotta in italiano nel 1978, mette in relazione questa tragedia (perché il fatto che Roma, la città eterna, venisse distrutta, è stata una tragedia, e lo è stata anche per tutta la concezione religiosa e politica di Roma) con il «primo grande manifestarsi dell’immigrazione dei popoli»2. Ratzinger mette dunque in relazione il fatto che «Roma eterna cadde» nelle mani dei barbari con un «primo manifestarsi» di un fenomeno grandioso che abbiamo sotto gli occhi e investe tutti, l’immigrazione che investe anche il continente europeo. È un accenno che vorrei riprendere la prossima volta, perché secondo me Ratzinger suggerisce (nel suo libro è solo un accenno) che non è un arroccamento su una cultura o su una civiltà anche religiose che rende possibile vivere con speranza tale fenomeno. E anche questo mi sembra molto attuale.
Adesso vorrei iniziare la lettura di un brano del De Trinitate che trovate in nota nelle dispense della lezione precedente a pagina 16. È come una grande premessa ai tre brani più semplici che poi leggeremo, che saranno il contenuto proprio dell’incontro di oggi. Una grande premessa che in qualche modo avevo suggerito l’altra volta. Vi leggo lo spunto da cui parto. «Se ciò che separa da Dio sono di per sé la finitezza, l’esteriorità, l’apparenza, allora il ritornare a Dio è un’ascesi». Se ciò che separa da Dio è la creazione in quanto tale, come finitezza, allora il ritornare a Dio è uno sforzo di purificazione da questa finitezza. «Se invece ciò che separa da Dio è un peccato storico», quello che la tradizione biblico-cristiana chiama peccato originale, «il ritornare a Dio non può che essere un fatto storico di perdono».
Ed è immediato osservare che la prima è una via faticosa, di pochi — perché la maggior parte della gente comunque si accontenta di altro — ed è mescolata ad abbagli e a errori. Sono le tre osservazioni che il Concilio ecumenico Vaticano I fa sul riconoscimento naturale delle verità morali e religiose3. Se la purificazione fosse uno sforzo di ascesi sarebbe di pochi, perché chi ha il problema del pane quotidiano non ha neppure il tempo di pensare all’impegno ascetico; sarebbe lunga e faticosa, perché è qualcosa che si basa sullo sforzo così instabile dell’uomo; e potrebbe ultimamente decadere in una perversione, come poi accenneremo.
Continuo a leggere a pagina 16 della lezione scorsa: «Qui sta tutta la differenza tra l’ascesi o purificazione filosofica e religiosa e il cristianesimo. Perché se la creazione stessa nel suo essere finita è male, allora per essere liberi dal male bisogna liberarsi dalla finitezza: l’ascesi, la purificazione consiste in un liberarsi dalla finitezza, in un andare oltre l’apparenza» (andare oltre è una tipica espressione della religiosità gnostica4) «in un passare dall’esteriorità all’interiorità. Se invece la creazione è buona…». Tutta la creazione è buona. «Omnis creatura bona» (1Tm 4,4). Anche il più piccolo istante di bellezza apparente è buono. E proprio in quanto bello è segno, testimonianza / confessio del Creatore5. Pensate alle parole di Gesù sulla bellezza dei gigli del campo e sui piccoli uccelli del cielo6. E la frase di Gesù: «Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati»7. Che cosa c’è di più banale di un capello del nostro capo?
La creazione è buona, quindi. Buona ma ferita. Perché anche questo è un dato di fatto: che il cuore dell’uomo è creato buono, ma l’uomo è lontano dal suo cuore. Lo dice quel fugitivus cordis sui, che è una delle espressioni più geniali di sant’Agostino8. L’uomo è lontano dal suo cuore; il cuore è creato buono, desidera la bellezza, la verità, la bontà, la giustizia, ma l’uomo è lontano dal suo cuore, e quindi corre altrove.
«Se invece la creazione è buona ma ferita, bisogna semplicemente sanare la ferita. E questo è il cristianesimo». Questo, secondo me, è il cuore di tutta la vicenda diciamo pure culturale, nel senso nobile e alto del termine, di Agostino. Agostino, che passa dal manicheismo al neoplatonismo trovando nei libri platonici una possibilità di verità e di liberazione, non solo definirà tutto questo sforzo come presunzione9, ma non esiterà, lo leggeremo ora, a mettere in relazione questa ascesi intellettuale e spirituale con l’opera del diavolo10.
Adesso leggiamo il brano del De Trinitate11. «Haec est vera pax et cum Creatore nostro nobis firma connexio, / Questa è la pace vera, questa è la stabile comunione con il nostro Creatore, data a noi / purgatis et reconciliatis per Mediatorem vitae, / purificati e riconciliati ad opera del Mediatore della vita». Purificatis et reconciliatis: purificazione e riconciliazione coincidono, per Agostino, con la possibilità di essere felici. Questa è la grande intuizione che Agostino scopre nel neoplatonismo: che la felicità non sta né nei piaceri del corpo, né nelle virtù dell’anima, ma nell’unità con l’unico Creatore, nell’unità con l’Uno. Per arrivare all’Uno i neoplatonici dicevano che è necessaria tutta un’ascesi intellettuale e spirituale. Siccome l’Uno è lontano, tra l’Uno e la creatura decaduta c’è tutto lo spazio in cui abitano i demoni. E così questa ascesi a un certo punto non può che tradursi nel sacrificare ai demoni12. Questa è la perversione religiosa alla quale secondo Agostino arrivano i platonici e lo stesso Platone13.
Riprendiamo il brano che stiamo leggendo: «purgatis et reconciliatis per Mediatorem vitae, / purificati e riconciliati con Dio attraverso il Mediatore della vita [l’uomo Cristo Gesù, come dice san Paolo14] / sicut maculati et alienati ab eo recesseramus per mediatorem mortis / come prima ci eravamo allontanati da lui, macchiati e alienati per opera del mediatore della morte». Alienati significa “separati da lui”, ma mi sembra un termine da conservare anche in italiano. Il diavolo è chiamato mediatore di morte. E qui apro una piccola parentesi. Agostino è stato accusato anche da teologi moderni di concepire la redenzione in maniera così concreta da ricondurla all’immagine “mercantile” dei “diritti del diavolo”. Come se il redentore, per strappare l’uomo preda del diavolo, dovesse pagare al diavolo un prezzo. È così concreta la percezione che Agostino ha della redenzione, che viene accusato di enfatizzare questi “diritti del diavolo”. Madec a questo riguardo ha una frase che sorprende per la sua attualità. «Egli [Gesù Cristo] è Colui che riscatta (Redemptor) nel senso concreto del termine; la gente che ascoltava Agostino non si ingannava e pensava immediatamente alle tristi realtà dell’epoca: c’erano razzie, tratte di donne e di bambini, eccetera»15. Il riscatto dell’uomo dal diavolo aveva e ha questa concretezza. Avevano sotto gli occhi «razzie, tratte di donne e di bambini, eccetera». Quando Agostino parla del diavolo come mediatore della morte, ha, come purtroppo abbiamo anche noi davanti agli occhi, questa concretezza16.
«Sicut enim diabolus superbus hominem superbientem perduxit ad mortem, / Come infatti il diavolo superbo ha condotto alla morte l’uomo che si è insuperbito...». Superbiens intus, dirà Agostino17, che si è insuperbito nell’interiorità, nello sforzo di ascesi, di andare oltre: superbiens intus. «Come infatti il diavolo superbo ha condotto alla morte l’uomo che si è insuperbito, / ita Christus humilis hominem obedientem reduxit ad vitam; / così Cristo umile ha ricondotto alla vita l’uomo che a lui obbedisce; / quia sicut ille elatus cecidit et deiecit consentientem, / infatti come quello [il diavolo] dall’alto della sua superbia è caduto e ha fatto cadere l’uomo che gli ha acconsentito, / sic iste humiliatus surrexit, / così questi [Gesù] dall’umiliazione [della croce] è risorto [surrexit significa rialzato dalla sua umiliazione, risorto dopo la morte di croce] / et erexit credentem / e ha risollevato l’uomo che in lui crede. / Quia enim non pervenerat diabolus quo ipse perduxerat / Tuttavia il diavolo non era giunto fino a dove aveva condotto l’uomo». Il diavolo non è morto; essendo puro spirito non poteva morire; è stato condannato, ma non è morto. Invece l’uomo, che ha acconsentito al diavolo, è anche morto nel corpo.
«Mortem quippe spiritus in impietate gestabat / Essendo spirito infatti portava la morte nella sua empietà [è morto nel cuore, non vive più della gloria del paradiso] / sed mortem carnis non subierat quia nec indumentum susceperat / ma non aveva subito la morte della carne perché non ne era rivestito», era puro spirito.
Siccome il diavolo è stato condannato, ma non è morto, «magnus homini videbatur princeps in legionibus daemonum / all’uomo [il diavolo] appariva come un grande capo [un grande potente] fra le sue legioni di demoni»: proprio perché non lo vede morto come conseguenza del suo peccato, il diavolo agli occhi dell’uomo sembra essere potente circondato da legioni di diavoli;
«per quos fallaciarum regnum exercet. / attraverso i quali [i demoni] esercita il suo regno di menzogna».
Abbiamo citato più volte in questi incontri i brani del De civitate Dei sul potere della città terrena. Ogni potere viene da Dio, ripete Agostino citando san Paolo (Rm 13, 1). Eppure gli uomini credono che per ottenere il potere e per conservarlo occorre pregare il diavolo, perché credono che il diavolo c’entri molto col fare carriera e conservare le cariche ottenute18. Proprio perché non vede morto il diavolo, l’uomo lo considera come uno che ha potere, che dispone di un grande potere.
Qui c’è una frase piuttosto lunga e complessa. Bisogna cominciare con «Sic hominem» e poi leggere tre righe sotto «subditum tenet». In quale modo il diavolo tiene schiavo l’uomo? E qui Agostino (ripeto la frase di Madec) «si è compiaciuto di assimilare la mediazione neoplatonica [le due tecniche di purificazione dell’anima secondo Porfirio19] all’opera del diavolo»20.
E anche qui scusate una piccola parentesi. Accenno a queste cose perché mi sembrano così attuali. In quale modo secondo i neoplatonici si purifica l’uomo? In due modi: a livello intellettivo con l’ascesi filosofica, a livello immaginativo attraverso la magia. Agostino in un brano di sorprendente attualità del De civitate Dei dice che la magia, quando è esercitata dalla povera gente, viene chiamata stregoneria, quando invece è esercitata dalle persone elevate viene definita teurgia, cioè, potremmo dire, cultura. Proprio come avviene oggi! Quando è esercitata dalla povera gente, allora è magia nera, quando invece è esercitata da persone elevate, allora è cultura, anzi culto21.
Tanto è vero che Agostino nel De vera religione ha una frase che forse solo in questi decenni si è colta in tutta la sua tragicità. Dice che gli uomini, per il peccato originale, sia quelli che ammettono l’esistenza di un unico Dio sia quelli che non l’ammettono e adorano i frutti della propria immaginazione (se non sono graziati dalla grazia del Signore, se non domandano di rimanere nella grazia del Signore22), sia che ammettano l’esistenza di Dio sia che non l’ammettano, diventano schiavi del piacere (voluptas), dell’ambizione (excellentia), della curiosità (spectaculum). Potremmo dire della lussuria, dell’usura e del potere23. E aggiunge che i platonici, quindi i più religiosi, i più motivati, pensano che tali vizi siano degni di culto. Dice proprio così: colenda24. E questa è una perversione propria di una certa religiosità, per cui per esempio l’ambizione diventa «una perversa imitazione dell’onnipotenza divina»25.
«Sic hominem per elationis typhum, potentiae quam iustitiae cupidiorem, aut per falsam philosophiam magis inflans, aut per sacra sacrilega irretiens, / Così il diavolo con l’arroganza dell’orgoglio tiene schiavo l’uomo, che ha più desiderio di potere che non di giustizia, o esaltandolo attraverso una filosofia ingannevole o irretendolo attraverso i riti sacrileghi / in quibus etiam magicae fallaciae curiosiores superbioresque animas deceptas illusasque praecipitans, / nei quali precipita le anime, che ha sedotte e illuse, troppo curiose degli inganni della magia e troppo superbe; / subditum tenet; pollicens etiam purgationem animae per eas quas teletaí appellant, / e promette anche la purificazione dell’anima attraverso quei riti che vengono chiamati “teletai” / trasfigurando se in angelum lucis / mascherandosi da angelo di luce [cfr. 2Cor 11, 14] / per multiformem machinationem in signis et prodigiis mendacii. / attraverso una multiforme macchinazione di segni e prodigi menzogneri».
Di fronte a questo tentativo di ascesi intellettuale o cultuale, rimane la semplicità della testimonianza cristiana: «Facendosi uomo, Cristo è diventato nello stesso tempo sacerdote e vittima del sacrificio»26. Non c’è bisogno di sforzarsi per arrivare alla felicità. La felicità stessa è venuta. Non c’è più bisogno di pregare e sacrificare ai demoni per raggiungere la felicità. La felicità stessa si è abbassata, si è fatta incontro, si è umiliata. «Sei tu il Sacerdote, tu la Vittima, tu l’Offerente, tu l’Offerta»27. È bellissima anche questa familiarità di preghiera. Tu sei il sacerdote, tu la vittima. Non occorre cercare altre vittime. Tu l’offerente, tu l’offerta.

1. Enchiridion de fide, spe et charitate

Il brano che ora leggiamo è tratto dall’Enchiridion de fide, spe et charitate. I tre brani che adesso leggeremo sono molto più immediati e semplici, molto più catechismo per i piccoli.
«Nam ecce tibi est Symbolum et dominica oratio. / Ecco, per te c’è il Simbolo della fede [il Credo] e la preghiera del Signore [il Padre nostro]. / Quid brevius auditur aut legitur? / Che cosa c’è di più breve [del Credo e del Padre nostro] da ascoltare o da leggere? / Quid facilius memoriae commendatur? / Che cosa c’è di più facile da mandare a memoria? / Quia enim de peccato gravi miseria premebatur genus humanum, / Poiché il genere umano era oppresso per il peccato da una grave infelicità». È importante tradurre la parola miseria con infelicità, proprio perché in Agostino l’opposto di miseria è beatitudo, cioè felicità28; «et divina indigebat misericordia, / e aveva bisogno della misericordia di Dio, / gratiae Dei tempus propheta praedicens ait: / il profeta, prevedendo il tempo della grazia di Dio, dice: / “Et erit: omnis qui invocaverit nomen Domini salvus erit”. / “E avverrà che chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo”. / Propter hoc oratio. / Per questo la preghiera [Il profeta aveva detto che verrà un tempo in cui basterà invocare il nome del Signore per essere salvi. Cioè per essere felici]. / Sed Apostolus cum ad ipsam gratiam commendandam hoc propheticum commemorasset testimonium, / Ma l’Apostolo, dopo aver ricordato questa testimonianza profetica per far percepire la grandezza di questa grazia, / continuo subiecit / subito aggiunge / “Quomodo autem invocabunt in quem non crediderunt?” /Come lo potranno invocare senza aver prima creduto in lui?” / Propter hoc Symbolum. / Per questo il Simbolo della fede»29.
Tutto qui. Chi invoca il Signore è salvo, cioè felice: per questo il Padre nostro. Ma come lo si può invocare se non lo si riconosce? Per questo il Credo. Tutto qui: breve e facile. Di fronte a tutto lo sforzo di purificazione umana, di fronte a tutta la pedagogia umana, una cosa semplice: la preghiera del Signore e il Simbolo della fede, il Padre nostro e il Credo.
«In his duobus tria illa intuere: / In questi due [piccoli, brevi] testi ... [brevi perché il Credo era quello degli apostoli, quello che abbiamo imparato da bambini, non quello che recitiamo ora nella santa Messa che è più lungo, ma le dodici espressioni del Credo che abbiamo imparato da bambini nel catechismo di san Pio X30]; in questi due testi, riconosci quelle tre cose: / fides credit, spes et caritas orant / la fede crede [che vuol dire riconosce], la speranza e la carità domandano».
Ma poi dice una cosa ancora più bella. Anche la fede domanda, anche la fede prega. Sia la fede, sia la speranza, sia la carità pregano, cioè domandano. «Sed sine fide esse non possunt, ac per hoc et fides orat. / Ma la speranza e la carità senza la fede non possono esistere, e per questo anche la fede prega».
Mi permetto di insistere su questo, perché mi sembra che oggi nella Chiesa, nel popolo cristiano, ci siano tante fatiche inutili, tante parole inutili. Invece è così semplice: chi prega si salva. Questa espressione, che sembra così banale, quando ero bambino, era il titolo di un piccolo libro di preghiere che ho suggerito di ristampare31 e che 30Giorni ha diffuso ormai in centinaia di migliaia di copie. Chi prega si salva. Chi domanda la salvezza si salva: chi la domanda, chi la desidera. E una cosa così vale per ogni uomo. E solo il Mistero conosce il cuore dell’uomo32. Basta un istante di desiderio. È la cosa più ecumenica possibile: basta un istante di desiderio. È certezza di fede che il battesimo «in re vel saltem in voto necessarius est ad salutem»33. Il battesimo o di acqua o di desiderio (un istante di desiderio) è necessario alla salvezza. Un istante di desiderio: è la cosa più umana, capite? Non un lungo e faticoso cammino etico-religioso, ma un istante di desiderio destato dalla grazia34.
E così la differenza tra l’antica alleanza e la nuova alleanza, per Agostino, può essere ricondotta a questo: «quod operum lex imperat / quello che la legge delle opere comanda [i dieci comandamenti] / hoc fidei lex impetrat / la stessa cosa la fede domanda»35. Lex fidei è la dinamica propria della fede. La legge comanda, la fede domanda. E poi aggiunge sempre nel De Spiritu et litera: attraverso la legge il Signore comanda: «fac quod iubeo / fa quello che comando». Attraverso la fede al Signore si domanda: «dona quod iubes / dona quello che comandi». È per questa dinamica che il cristianesimo è semplice. Il cristianesimo non è contro la legge, ma dona la possibilità di mettere in pratica la legge. La legge comanda, la fede domanda. E così sempre in De spiritu et litera dice: quando comanda una cosa semplice, ubbidisci subito, quando invece comanda una cosa di cui non sei capace, domanda, così da avere la grazia di compierla. E in ogni caso ringrazia il Signore, perché ti ha dato la possibilità di compiere quello che puoi subito fare e ti dona la grazia di domandare quello che a te immediatamente sembrava impossibile36.
Così mi stupisce il fatto che, negli inni della Quaresima, il digiuno cristiano è solo una forma di domanda, una forma di preghiera. «Adesto nunc ecclesiae, adesto paenitentiae, qua supplicamus cernui, peccata nostra dilui / Tu o Signore [la preghiera è rivolta proprio a Gesù37] sii presente alla tua Chiesa, sii presente al digiuno con il quale preghiamo in ginocchio che i nostri peccati siano perdonati». Il digiuno dei cristiani, nella sua concretezza di un solo pasto al giorno, è solo una forma di domanda. E così le pratiche dell’ascesi non sono abolite, ma assunte nella loro concretezza (digiuno dal cibo, digiuno dai peccati)38 e trasfigurate in domanda, in preghiera39. E questa è la differenza con il digiuno dei musulmani. Con tutto il rispetto e la stima che uno ha per loro. Anche perché a livello di pratiche religiose sono più impegnati di noi. E non solo il digiuno cristiano è una forma di domanda, ma si domanda la possibilità stessa di digiunare: «Hanc [abstinentiam] mente nos et corpore Deus tenere perfice / Questo [digiuno], Signore, dona di praticarlo con il cuore e con il corpo»40. È un’altra dinamica. Più semplice, perché anche il bambino può domandare. È tutto più semplice. Se tutto il cristianesimo è ricondotto a preghiera, a domanda, è tutto più semplice e possibile sempre. Basta desiderare. Tanto è vero che chi desidera la felicità prega sempre41. Per questo, per esempio, si può leggere Pavese o Leopardi e accorgersi che sotto il loro ateismo batte un cuore cristiano. Non perché dobbiamo mettere un’etichetta cristiana a chi cristiano non è, ma perché la loro poesia esprime il desiderio del cuore. Pensate al canto Alla sua donna di Leopardi, quando rivolgendosi alla bellezza cui il cuore aspira scrive: «[...] Già sul novello / Aprir di mia giornata incerta e bruna, / Te viatrice in questo arido suolo / Io mi pensai». Quella bellezza che lui adolescente credeva di poter incontrare. «Ma non è cosa in terra / Che ti somigli». Ma poi, passata l’adolescenza, non ha incontrato nulla, nessuna persona, che corrispondesse al desiderio del suo cuore. «Se dell’eterne idee / L’una sei tu,» se tu, o bellezza che il cuore attende, sei una delle idee eterne, «cui di sensibil forma / Sdegni l’eterno senno esser vestita, / E fra caduche spoglie / Provar gli affanni di funerea vita», che sdegni di farti incontrare sensibilmente in questa vita, «[...] Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d’ignoto amante inno ricevi». Di qua dove gli anni sono tristi e brevi, ricevi questo canto di un amante che non ti conosce, di uno che ti desidera e di cui (pensava Leopardi) tu non ti curi. Non si tratta di mettere l’etichetta cristiana, si tratta di quella vibrazione umana che riempie di commozione perché, 1800 anni prima, quella bellezza, per cui il cuore è creato, aveva preso carne da una donna di nome Maria. Sua madre l’ha partorito e guardato, e Giuseppe e i pastori..., e i primi che all’inizio della sua missione l’hanno incontrato. E da allora un’infinità di uomini l’hanno incontrato. Lui bellezza increata rivestita di sensibil forma. Hanno incontrato, e anche oggi incontrano, questa bellezza per pura grazia.
2. Sermo 43, 642

«Et ipsa quanta Christi dignatio? / Quanta fu la condiscendenza di Cristo? / Petrus iste qui sic loquitur piscator fuit [Agostino sta citando la testimonianza di Pietro riguardo alla trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor (2Pt 1, 16-19)] / Lo stesso Pietro che così parla fu un pescatore / et modo magnam laudem habet orator si potuerit ab illo intellegi piscator / e anche l’intellettuale [l’oratore] ora può ricevere una grande lode se il pescatore ha potuto essere compreso da lui». Vuol dire che anche l’intellettuale può essere salvato se ascolta il pescatore.
«Propterea primis christianis loquens apostolus Paulus ait: / Per questo l’apostolo Paolo parlando ai primi cristiani dice: / “Videte vocationem vestram, fratres, / “Guardate, o fratelli, la vostra chiamata [la vostra comunità]: / quia non multi sapientes secundum carnem, non multi potentes, non multi nobiles. / tra di voi non ci sono molti sapienti secondo la carne [vuol dire secondo il giudizio meramente umano, secondo quello che il mondo stima], non molti potenti, non molti nobili, / sed infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia, / ma Dio ha scelto le cose deboli del mondo per confondere le cose forti, / et stulta mundi elegit Deus ut confundat sapientes, / e Dio ha scelto le cose che per il mondo sono stolte per confondere i sapienti, / et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus / e Dio ha scelto le cose che nel mondo non hanno onore e che sono di poco conto [che nel mondo non hanno consistenza, non hanno potere], / et ea quae non sunt [...] / e le cose che non sono [...]».
C’è una frase di Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (la lettera che più mi è cara, la più personale di Paolo in cui, come lui stesso scrive, apre tutto il suo cuore43) che dice: «Io non sono nulla»44. Paolo era un nulla. «[...] tamquam sint ut ea quae sunt evacuarentur / (e ha scelto le cose che non sono) come se fossero, per ridurre al nulla le cose che sono».
«Si enim eligeret Christus primitus oratorem, diceret orator: / Se infatti Cristo avesse scelto per primo un oratore [un intellettuale, un professore universitario], l’oratore avrebbe detto: / “Eloquentiae meae merito electus sum”. / “Sono stato scelto per la mia eloquenza” [per la mia intelligenza, per la mia competenza]. / Si eligeret senatorem, diceret senator: “Dignitatis meae merito electus sum”. / Se avesse scelto per primo un senatore [del Senato romano], il senatore avrebbe detto: “Sono stato scelto per la mia dignità [di senatore]”. / Postremo, si prius eligeret imperatorem, diceret imperator: “Potestatis meae merito electus sum”. / E alla fine se avesse scelto per primo l’imperatore, l’imperatore avrebbe detto: “Sono stato scelto perché ho potere”. / Quiescant et differantur isti paululum, / Stiano calmi e aspettino un poco questi».
«Quiescant, non omittantur / Stiano calmi, non siano esclusi». Agostino vive in parte sotto Teodosio, il grande imperatore cristiano, quello che ha stupito la Chiesa accettando la penitenza pubblica. Agostino dice che nessuna opera di Teodosio ha riempito i fedeli di stupore come il suo accettare umilmente la penitenza pubblica45;
«non contemnantur / non siano disprezzati / sed aliquantulum differantur, quo possunt gloriari de semetipsis in semetipsis. / ma aspettino un po’ quelli che possono avere un motivo per gloriarsi in se stessi. / “Da mihi inquit illum piscatorem / Dammi, disse [il Signore], quel pescatore / da mihi idiotam / dammi quella persona semplice / da mihi imperitum / dammi quello che non ha nessuna cultura / da mihi eum, cum quo non dignatur loqui senator, nec quando emit piscem. / dammi colui al quale il senatore non si degna di rivolgere la parola neppure quando va a comprare il pesce. / Ipsum inquit da. / Dammi uno così, disse. / Hunc si implevero, manifestum erit quod ego facio. / Se avrò riempito [di doni] uno così, sarà evidente che sono io che agisco». Questo è il cristianesimo. Se agisce l’uomo, questo non stupisce nessuno. Se attraverso anche una mia povera parola, passa la commozione per l’agire di un Altro, questo può commuovere il cuore.
«Quamquam et senatorem et oratorem et imperatorem ego sum facturus / E sebbene io poi riempirò [di doni] anche il senatore, anche l’intellettuale, anche l’imperatore [...]». E Agostino avrà pensato a Mario Vittorino, il grande professore universitario, la cui conversione Agostino ricorda nel libro VIII delle Confessioni46. Questo grande retore diceva in segreto a Simpliciano: «Io sono già cristiano». E Simpliciano gli rispondeva: «Finché non ti vedrò nella Chiesa di Cristo, tra i catecumeni, tra coloro che umilmente danno i loro nomi per chiedere il battesimo, non sei cristiano». E allora Vittorino, il grande filosofo neoplatonico, replicava: «Ma sono forse i muri che fanno i cristiani?». Non erano le mura di una chiesa. Era la grazia dell’umiltà di farsi piccolo (puer, infans scrive Agostino47) accettando di unirsi all’ultimo pescatore per ricevere il battesimo. Nel 387, in quella notte di Pasqua, tra il 24 e il 25 aprile, Agostino ha la stessa umiltà. E questo è stato il momento più grandioso della sua vita.
«quandocumque facturus ego et senatorem, / e infatti io farò mio discepolo anche il senatore, / sed certius ego piscatorem / ma è più evidente che sono io quando riempirò [di doni] il pescatore [uno che non conta niente]». Aggiungete pure: quando io riempio di grazia uno che è peccatore. Perché se chiamo al cristianesimo una persona perbene, sono io sì che lo riempio di grazia, ma è come meno evidente. Se chiamo un povero peccatore e lo riempio di grazia, è più evidente che sono io.
«Potest senator gloriari de semetipso, potest orator, potest imperator. / Il senatore [o colui che è una persona per bene] può gloriarsi di se stesso, lo può l’intellettuale, lo può l’imperatore. / Non potest nisi de Christo piscator. / Un pescatore [un poveretto] non può gloriarsi se non di Cristo. / Veniat propter docendam salubrem humilitatem. / Venga, dunque, per insegnare quell’umiltà che dona la salvezza. / Prius veniat piscator. Per ipsum melius adducitur imperator”. / Per primo venga il pescatore [il poveretto, il povero peccatore]. Attraverso lui sarà più bello che venga condotto anche l’imperatore».
Questo brano, secondo me, è di un’attualità sorprendente. Recentemente è stato detto che bisogna passare dalla militanza alla testimonianza. È vero che bisogna passare dalla militanza alla testimonianza, ma l’essenziale non è questo. L’essenziale è chi è il soggetto della testimonianza. Perché se il soggetto della testimonianza siamo noi, può fare meno danni una militanza politica che una testimonianza religiosa. Fa meno danni perché la militanza politica ha pur sempre una certa concretezza. Il soggetto della testimonianza non siamo noi, è questo ego. Ego facio. È lui48. Altrimenti siamo come i farisei: andiamo in giro per mari e monti per fare un proselito e poi dopo che l’abbiamo fatto lo si rende più infelice che non se stessi. Lo dice Gesù49. E gli mettiamo sopra dei pesi che neppure noi portiamo50. L’essenziale è il soggetto della testimonianza. Il soggetto della testimonianza è Gesù Cristo51. E la Chiesa si diffonde così, altrimenti è proselitismo per gente impegnata. Si diffonde così la fede52.
Sant’Agostino, e con lui tutti i Padri, hanno espresso questo con semplicità, riconoscendo che la Chiesa si diffonde verginalmente53. Che vuol dire che si diffonde per grazia di Dio, non come termine di uno sforzo umano. Agostino nel De civitate Dei54 dice che sono tre i miracoli nella diffusione del cristianesimo: primo, il miracolo più grande, che Cristo sia risorto nella carne e asceso al cielo nella carne. Secondo: che questa fede sia stata creduta. Che il mondo abbia creduto a questa fede è un miracolo. Ma Agostino aggiunge che c’è un terzo miracolo: il modo con cui questa fede si è comunicata: Et ipse modus, quo mundus credidit, si consideretur, incredibilior invenitur. / La stessa modalità [il metodo] attraverso cui il mondo ha creduto [cioè la testimonianza], se si guarda bene, desta stupore». E poi dice: se infatti molte persone lo avessero visto risorto, «et quod viderunt diffamare curarunt / e si fossero impegnati a diffondere quello che avevano visto», non sarebbe stato una cosa stupenda55. È bellissimo questo. Se la testimonianza fosse stata il termine di un loro sforzo — diffamare curarunt — di proselitismo, non sarebbe stata una cosa miracolosa. Non avrebbe destato stupore. Invece, che a pochi (erano dodici, anzi undici, uno l’hanno dovuto riaggregare dopo che Giuda se n’era andato), senza alcuna cultura, senza alcuna considerazione, il mondo abbia creduto, questo desta molto più stupore, segno evidente che un Altro operava56. Anche la modalità della diffusione della fede è una modalità di grazia.


3. Enarratio in psalmum 112, 1-2

L’ultimo brano riprende questi accenni in maniera, direi, più commovente. È il commento al salmo 112, «Laudate pueri Dominum / Lodate, fanciulli, il Signore».
«Nostis, fratres, et saepissime audistis in Evangelio Dominum dicere: “Sinite pueros venire ad me; talium est enim regnum caelorum”; / Fratelli, voi conoscete e più volte avete ascoltato nel vangelo il Signore dire: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di loro è il regno dei cieli”; / et iterum: “Si quis non receperit regnum Dei sicut puer, non intrabit in illud” / e ancora: “Se uno non riceverà il regno di Dio come un fanciullo, non entrerà in esso”. / Quapropter, carissimi, cum cantari auditis in psalmis: “Laudate, pueri, Dominum”, / Per questo, carissimi, quando ascoltate cantare nei salmi: “lodate fanciulli il Signore”, / ne arbitremini ad vos istam exhortationem non pertinere / non pensate [Agostino qui parlava soprattutto a persone adulte] che questa esortazione non si riferisca anche a voi / quia iam corporis pueritiam supergressi, vel iuvenili decore virescitis, vel senili honore canescitis; / poiché siete usciti dalla fanciullezza del corpo e vi trovate o nel fiore della giovinezza o nella veneranda età della vecchiaia; / omnibus enim vobis dicit Apostolus: “Nolite effici pueri mentibus; sed malitia parvuli estote, ut mentibus perfecti sitis” / infatti a tutti voi l’Apostolo dice: “Non dovete divenire infantili nella mente, ma siate piccoli quanto a malizia, per essere perfetti nella mente”. / Qua malitia maxime, nisi superbia? / Ma qual è la malizia più grande se non la superbia? / Ipsa enim de vana granditate praesumens non sinit hominem ambulare per artam viam. / [Qui è bellissimo] Infatti la superbia, presumendo una grandezza vuota, non permette che l’uomo cammini per la strada stretta / et intrare per angustam portam / ed entri per la porta stretta». La strada stretta di cui parla Gesù (Mt 7, 13-14) non è stretta perché è difficile come senza accorgerci siamo indotti a pensare. È stretta perché è piccola, e così solo i bambini vi possono camminare. È una cosa stupenda, questa. E così la porta stretta, non è stretta perché è difficile, ma è stretta perché è piccola. E quando uno è superbo, si ingrandisce, e così nella porta piccola non può passare.
La superbia rende grandi e quindi non lascia camminare per la strada stretta e non lascia entrare per la porta stretta, «puer autem facile intrat per angustum; / il fanciullo invece entra facilmente per i luoghi stretti / et ideo nemo, nisi ut puer, intrat in regnum caelorum. / e per questo nessuno se non è bambino [se non è piccolo] entra nel regno dei cieli». La porta del regno dei cieli e la strada del regno dei cieli sono strette. Quindi bisogna essere bambini, piccoli, per entrarci. Se uno è bambino, piccolo, entra dappertutto. Questo puer facile intrat è una cosa dell’altro mondo. La strada stretta e la porta stretta sono facili se si è bambini. I bambini passano dappertutto. È stupenda questa lettura di Agostino.
Agostino continua accennando alla superbia «suavi iugo Domini resistentem / che resiste al giogo soave del Signore» e afferma che il canto Laudate pueri Dominum non lo possono cantare quelli che si credono grandi e pur essendo religiosi parlano di Dio solo perché il loro nome, non il nome di Dio, sia elogiato su tutta la terra57.
«[...] et ideo Dominum nisi pueri non laudant, / [...] e così il Signore lo possono lodare solo i bambini / quia superbi eum laudare non norunt; / perché i superbi non sanno neppure cosa sia lodarlo / sit senectus vestra puerilis, / e allora [si rivolge alle persone lì presenti] la vostra anzianità sia come di un fanciullo»: ad Deum qui laetificat iuventutem meam, si iniziava così la Messa una volta. Quando ero piccolo in seminario al Liceo c’era l’antico padre spirituale, che era stato padre spirituale anche di don Giussani, padre Motta, che aveva novant’anni. Tutte le mattine stava sempre in fondo alla chiesa. Sentire quest’uomo di novant’anni dire Ad Deum qui laetificat iuventutem meam era una cosa che adesso a pensarci mi commuove. Allora non mi commuoveva, ma adesso a ripensarci mi commuove: «a Dio che rende lieta la mia giovinezza»;
«et pueritia senilis, / e il vostro essere giovani sia pieno dell’esperienza di una persona anziana, / id est ut nec sapientia vestra sit cum superbia, / cioè che la vostra sapienza non sia con superbia / nec humilitas sine sapientia, / e l’umiltà [l’essere piccoli] non sia senza sapienza, / ut laudetis Dominum ex hoc et usque in saeculum. / così che possiate lodare il Signore da ora e sempre».
«Quacumque autem in parvulis sanctis Ecclesia Christi diffunditur, / Dovunque la Chiesa di Cristo si diffonde attraverso dei piccoli santi [attraverso dei bambini santi, cioè ripieni della grazia. Perché l’essere bambini non è una tipologia psicologica. I bambini sono coloro che ripetono semplicemente il Padre nostro e il Credo. Potremmo dire, citando Péguy, coloro che non hanno il problema di aggiungere qualcosa di loro al «catechismo della parrocchia natale, quello dei bambini piccoli»58] / laudate nomen Domini; hoc est enim: A solis ortu usque ad occasum, laudate nomen Domini / lodate il nome del Signore; infatti questo vuol dire: “dal sorgere del sole al suo tramonto lodate il nome del Signore”».
Sull’ultimo numero di 30Giorni vi è un inserto che contiene molte delle parole di Bernadette Soubirous, la bambina che ha visto a Lourdes la Madonna59. Sono frasi pronunciate sia negli anni in cui visse in convento a Nevers sia negli anni in cui rimase a Lourdes subito dopo le apparizioni del 1858. Più volte Bernadette aveva chiesto alla Madonna: «Signora, avreste la bontà di dirmi il vostro nome?» e la Madonna aveva sempre sorriso a questa domanda. In quel 25 marzo (come dopodomani), festa dell’Annunciazione, cioè dell’incarnazione del Signore nel ventre di Maria, alzando — dice Bernadette — gli occhi al cielo, la Madonna le rispose in patois, in dialetto: «Io sono l’Immacolata Concezione». Bernadette non poteva sapere che cosa volesse dire. E ritornando dalla grotta sorrideva, e a una sua amica che le chiedeva «Perché sorridi?», rispose: «Non dirlo a nessuno. Mi ha detto: “Sono l’Immacolata Concezione”»60. Poi andò dal prete e per strada ripeteva più volte la risposta della Madonna per non dimenticarsela.
Vi leggo questo brano e poi un breve commento che è apparso su Il Tempo di ieri. Siamo nel dicembre del 1870, c’è la guerra tra Francia e Prussia, guerra che ha avuto anche per l’Italia importanti conseguenze: la presa di Roma è stata possibile nel contesto di quella guerra. Bernadette ormai non è più a Lourdes, ma nel convento delle suore di Nevers. I prussiani ormai sono alle porte di Nevers, hanno raggiunto tutti i dipartimenti più vicini. E così una persona importante della città è andata da Bernadette per porle alcune domande. «“Alla grotta di Lourdes, o in seguito, avete avuto qualche rivelazione relativa all’avvenire e ai destini della Francia? La Vergine non vi ha per caso incaricata di trasmettere avvertimenti o minacce per la Francia?”. “No”. “I prussiani sono alle porte: non vi mettono paura?”. “No” [I prussiani erano protestanti. Un po’ come dire oggi, in certi ambienti, i musulmani]. “Dunque non c’è nulla da temere?”. “Io non temo che i cattivi cattolici”. “Non temete nient’altro?”. “No, nulla”»61. Mi sembra molto attuale questa risposta.
Ieri poi su Il Tempo c’era una breve lettera a cui Andreotti ha risposto. Così dopo la piccola Bernadette, cito anche un senatore, perché, come diceva Agostino, anche i senatori non sono esclusi, anzi. Io sono grato al Signore per la vicinanza del senatore Andreotti. «Lei non sembra convinto del pericolo islamico», scrive il lettore. «Vorrei rammentarle» risponde Andreotti «quanto disse il presidente Bush all’indomani dell’11 settembre: “Bin Laden è un traditore della propria religione”. Chi non capisce questo e fa campagna generalizzata lavora senza saperlo a favore dei fondamentalisti»62. La frase di Bernadette dice la stessa cosa. «“Dunque non c’è nulla da temere?”. “Io non temo che i cattivi cattolici”. “Non temete nient’altro?”. “No, nulla”». Questa è l’umiltà piena di sapienza, e il Signore può riempire di questa umiltà una ragazzina che quando ha visto la Madonna non aveva ancora fatto il catechismo e la prima comunione. Come lei stessa dice: «Volete che non sappia che se la Madonna mi ha scelta, è perché ero la più ignorante? Se ne avesse trovata una più ignorante, avrebbe preso lei»63.


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