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SIERRA LEONE
tratto dal n. 01 - 2000

TESTIMONIANZE. Incontro con Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni, Sierra Leone

...e per padre un fucile


Migliaia di bambini, rapiti e usati come mercenari, attendono di tornare a casa. Un vescovo missionario si è trovato a mettere pace tra eserciti “legittimi” e milizie irregolari. Diario inedito di una guerra nel Paese più povero del mondo


Intervista con Giorgio Biguzzi di Giovanni Cubeddu


Dentro la saletta dimessa molte sedie accatastate riposano disordinatamente. Su una siede e racconta Giorgio Biguzzi, nato a Cesena sessantaquattro anni or sono, missionario saveriano, vescovo. Siamo ospiti di un seminario alle porte di Roma, ai Castelli, la giornata è molto bella e si respira ancora l’aria delle vacanze di Natale, sebbene agli sgoccioli. La grande struttura seminarile, piuttosto ben tenuta, ospita in realtà appena dieci giovani candidati al sacerdozio, e la vera novità della giornata sono i piccoli ospiti dalla pelle nera: dieci bambini di una sperduta terra africana, la Sierra Leone, che qui nel giardinetto fanno da padroni. Julia è la più piccolina e la più coccolata, Heric non vede l’ora di calcare il campo di calcio sottostante il seminario, che per il momento è occupato da due monellini nostrani e quattro caprette pigre. Fatmata, la più grandicella, ha adocchiato la statua bianca di Gesù che stende le braccia, come fosse in croce, e vuole una foto con Lui. Per imitarlo stende le braccia, come fosse in croce, e clic… Tutti e dieci hanno una giacca a vento grigia e gialla e discrete scarpe da ginnastica che si direbbero acquistate al discount: forse sono il regalo di qualche laico cuore generoso. Di cuori laici intanto se ne vedono già due, Fabrizio C. e Orsola D., che sono, loro due soltanto, il centro missionario locale, terminale di tanti piccoli miracoli di bontà. Fabrizio è un vero motore diesel, chiassoso, instancabile, tutto un abbraccio. Anche il vescovo ospitante, per un attimo, circondato da manine e visetti, perde il suo generoso cipiglio. Le suore missionarie presenti sono austeramente commosse nel rivedere, qui in terra italiana, quei piccoli che hanno amato e curato in terra africana, e fa una certa impressione sentire paroline in un italiano così stentato quanto beato di poter essere pronunciato da labbra così festose, lingua benedetta. Un ragazzone tutto barba, capelli e occhi chiari dice che «è ora di pranzo, tutti al refettorio». E il grande gioco si trasferisce nella sala accanto a quella delle sedie disordinate. Dove Biguzzi, quasi salta il pasto per narrare un pezzo della sua storia.
Bambini-soldato in Sierra Leone

Bambini-soldato in Sierra Leone

Lui è vescovo dall’87 a Makeni, diocesi sierraleonese ampia quasi la metà del territorio statale. Missionario lo è da molto di più, ventisei anni. Perciò ha visto e toccato cosa ha significato per questo Stato-giocattolo di 72mila chilometri quadri l’instabilità e la guerra civile che dal maggio ’91 a oggi ha prodotto almeno centomila morti ed un milione di profughi. Il Paese, membro del Commonwealth, è un paradiso di spiagge e di risorse minerarie, i diamanti si raccolgono letteralmente in terra con le mani e anche il preziosissimo rutilio si trova a percentuali di purezza pressoché assolute. Ma tutto ciò non è stato sufficiente a dare benessere e pace agli abitanti, discendenti diretti dei neri liberati nel XVIII secolo dalla schiavitù in America: difatti, secondo gli indici di sviluppo umano dell’Onu, oggi la Sierra Leone è decisamente all’ultimo posto mondiale. La ribellione all’inefficienza e alla corruzione del governo allora presieduto da Joseph Momoh – è più facile incamerare le concessioni di sfruttamento dalle multinazionali diamantifere che amministrare degnamente – scoppiò nel maggio ’91. Foday Sankoh era il capo dei ribelli, affiancato, nel ’97, dal maggiore John Paul Koroma, che depose con un putsch il vincitore delle elezioni del ’96, Ahmed T. Kabbah. Il resto è storia recente di battaglie feroci tra eserciti “legittimi” e milizie irregolari. Chi sa di geopolitica inscrive la triste parabola sierraleonese nella lotta per il predominio della regione, dove la Nigeria vuol far sentire tutto il suo peso. Infatti, obbediscono sostanzialmente ad Abuja sia le truppe dell’Ecomog (la forza armata dell’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, che ha difeso Kabbah dai ribelli rimettendolo ora al potere), che quelle sotto bandiera Onu, schierate a fine novembre con immenso ritardo e solo dopo l’accettazione degli accordi di pace stilati il 7 luglio ’99 a Lomé in Togo. Così, mentre in Sierra Leone si procedeva a stermini sistematici, Clinton – seguito l’anno dopo dalla signora Albright – annunciava nel suo tour africano del ’98 l’impegno statunitense per un “rinascimento” materiale e morale del continente nero, il Papa volava in Nigeria, e il presidente Kabbah era accolto ufficialmente in Vaticano. Negli equilibri seguiti agli accordi di pace i ribelli Sankoh e Koroma hanno comunque ottenuto le presidenze degli enti di vigilanza sul processo di pace, sullo sfruttamento minerario e la ricostruzione, e i loro uomini sono entrati nel nuovo governo ora in carica. Nel momento di maggior pressione dei ribelli, la Gran Bretagna inviò la nave da guerra Norfolk nelle acque territoriali sierraleonesi, ufficialmente per aiuti umanitari.
Questo è il contesto sicuramente complesso, talvolta inestricabile. Mancano le immagini. Sono quelle dei morti, dei mutilati a colpi di machete, e dei bambini (seimila, diecimila?) rapiti da questa guerra e utilizzati come aguzzini o schiavi dai fronti contrapposti. Esattamente come quei dieci discoli che Biguzzi ha rubato all’orrore e condotto con sé in piazza San Pietro per il Giubileo dei bambini, il primo gennaio 2000, chiedendo a tutti di aiutarlo a salvare gli altri coetanei che non hanno più ritrovato padre, madre, casa e che ancora hanno il desiderio di essere felici.
Ecco dunque la storia dell’ultimo anno, nel quale un vescovo cattolico si è trovato a cercare, per amore della Chiesa locale e della povera gente sierraleonese, il bene della pace. Da questo essere mediatore per caso Biguzzi ha avuto un po’ di fama, cose che passano, fastidiose, superflue. Lui narra pianamente un diario inedito, senza i sensazionalismi di cui altri (prelati) farebbero abbondante uso, credendosene in diritto. «La caduta della capitale Freetown in mano ai ribelli, nel gennaio ’99, per tutti fu un grande shock, e da allora si iniziò a cercare, pregare, tentare una via di a soluzione non militare ma negoziale…», ricorda.

Come si iniziò?
GIORGIO BIGUZZI: I primi a crederci sono stati i membri del Consiglio interreligioso che già esisteva in Sierra Leone da due anni. Vi partecipano religiosi musulmani, protestanti e cattolici, ed è stato un grande esempio, quantomeno di tolleranza, vederci riuniti a discutere assieme su argomenti comuni che riguardano la sicurezza e la pace del povero popolo, il più povero del mondo, della Sierra Leone.
Di quale autorità e rappresentanza reale godeva questo Consiglio interreligioso?
BIGUZZI: L’esecutivo del Consiglio è composto da circa venti membri, venti “capi” di cui la metà sono islamici, in rappresentanza di diverse associazioni: l’Unione nazionale delle donne musulmane, l’Unione nazionale degli imam, la direzione locale della Federazione mondiale musulmana, i Giovani musulmani, ecc. I cristiani rappresentano le Chiese presenti nel Paese: anglicana, battista, metodista, la Federazione evangelica… Per la Chiesa cattolica sedevamo io, l’arcivescovo Joseph Ganda e alcuni sacerdoti locali. Quando ci fu l’attacco a Freetown, Ganda fu sequestrato, e al suo rilascio dovette partire, ed è stato fuori, in Europa e negli Stati Uniti, per circa otto mesi. Io sono rimasto, e in quel Consiglio ho cercato di far tutto ciò che potevo: in alcuni periodi con gli altri membri e vescovi residenti finivamo per vederci quasi ogni giorno.
Non era pericoloso trattare in nome delle diverse fedi?
BIGUZZI: Fino alla presa di Freetown per tutti era tabù anche soltanto ipotizzare di sedersi al tavolo negoziale: esprimerlo significava essere un traditore del governo e un fiancheggiatore dei ribelli. Le campagne di stampa locali inneggiavano alla linea dura. Ma la caduta di Freetown ha cambiato tutto. È stato allora che i “capi religiosi” hanno iniziato a parlare pubblicamente di accordi di pace, offrendo con il nostro lavoro personale non una mediazione in senso tecnico – termine che noi abbiamo sempre accuratamente evitato – ma una facilitazione al negoziato.
E come avete, in pratica, reso efficace questa diplomazia parallela e non ufficialmente governativa?
BIGUZZI: Il processo è stato lento. Abbiamo iniziato a sensibilizzare l’opinione pubblica, a incontrare i parlamentari, i giornalisti, i capi tradizionali etnici, gli studenti, e anche i ministri di culto protestanti, cattolici e singoli imam. Allo stesso modo vedevamo il presidente Kabbah, talora più volte la settimana. A lui riferivamo e chiedevamo notizie, ricevendone l’appoggio: «Andate avanti voi» diceva. E come lui ci sostenevano i parlamentari e i capi tradizionali, contando sul quel po’ di rispettabilità e neutralità che il Consiglio ispirava a tutte le parti del conflitto.
Forti di questo consenso abbiamo giocato con Kabbah una carta rischiosa, cioè la richiesta di incontrare noi personalmente il capo dei ribelli, Foday Sankoh. Il quale, trasferitosi in Nigeria, era stato catturato ed estradato in Sierra Leone, giudicato e condannato a morte. Lo scopo dichiarato era di convincere Sankoh a parlare coi capi ribelli, acquattati nei boschi, per indurli a trattare. Abbiamo insistito su questo punto con Kabbah, chiedendo inoltre di vedere Sankoh noi del Consiglio da soli, senza la presenza di militari o testimoni. Eravamo tra la fine di febbraio e il marzo ’99. La prima volta siamo andati in nove, lui era ancora vestito da detenuto, abbiamo trattato per due ore. Ci ha raccontato la “sua” versione dei fatti, ma ha da subito accettato l’idea che la guerra finisse lì. Seguirono molti altri incontri, meno segreti, fino al momento in cui le trattative permisero di aprire la stanza dei colloqui addirittura ai giornalisti. Le nostre prime richieste ai ribelli furono di dichiarare il cessate il fuoco, rilasciare i bambini e le donne. Da lì è iniziata la campagna per il rilascio e il “riscatto” sociale dei bambini-soldato.
BLAIR A MANO ARMATA. Nel 1998 la Gran Bretagna ha inviato armi – attraverso un’organizzazione di mercenari – all’esercito della Sierra Leone violando l’embargo imposto dall’Onu

BLAIR A MANO ARMATA. Nel 1998 la Gran Bretagna ha inviato armi – attraverso un’organizzazione di mercenari – all’esercito della Sierra Leone violando l’embargo imposto dall’Onu

Vedere questi bambini usare le armi per uccidere è stato lo spot mediatico di questa guerra, assieme alle mutilazioni efferate.
BIGUZZI: La tragedia di questa guerra è stata soprattutto il sequestro di massa dei bambini, da ambo le parti in conflitto. Non che le truppe governative li sequestrassero, ma la cosiddetta “Guardia civile” – formata dai guerrieri tribali, i cosiddetti Kamajors, che combattevano dalla parte di Kabbah ed erano da lui riforniti di armi – aveva arruolato bambini nelle sue file, come i ribelli, che invece li sequestravano con la violenza, e con la violenza gli imponevano di razziare ed uccidere. Anche le ragazzine, sequestrate e violentate nel corpo e nell’anima, servivano come ausiliarie e come guerriere.
Può dare una consistenza quantitativa a questa tragedia?
BIGUZZI: Gli osservatori contano circa 45mila combattenti non regolari presenti in Sierra Leone, divisi più o meno equamente tra Kamajors e ribelli. Di questi, seimila (ma c’è chi dice almeno diecimila) sarebbero bambini. I colonnelli di questi eserciti rimediati e feroci sono giovani di venti o trenta anni al massimo, magari rapiti all’inizio della guerra civile dieci anni fa, diventati uomini senza mai avere avuto una fanciullezza. Quando una volta sono stato rapito dai ribelli, per lunghi giorni mi sono trovato faccia a faccia con questi giovanissimi soldati. Non mi colpiva che fumassero la marijuana, ma il loro viso senza un accenno di gioia, cupi come non lo sono affatto i loro coetanei sierraleonesi, per natura invece assai giovali e aperti.
Torniamo alla storia delle trattative.
BIGUZZI: Ottenemmo da Sankoh che lui richiedesse la liberazione di bambini e donne, una petizione rimasta lungamente inascoltata dai suoi: che vi potesse essere un piccolo gioco della parti non è da escludere, dato che la sua situazione di condannato a morte gli imponeva di destreggiarsi al meglio. Abbiamo continuato nella spola tra i contendenti, dando e chiedendo gesti di buona volontà, rischiando.
Bisognava poi tenere conto dell’esercito di John Paul Koroma, vero autore del colpo di Stato del 25 maggio ’97 e dell’assedio del gennaio ’99 che ha semidistrutto la capitale (ambedue le volte quest’esercito è stato ricacciato dall’Ecomog). A marzo instaurammo con loro dei contatti radio, contatti che io stesso avevo iniziato dal momento che gli uomini di Koroma avevano sequestrato il missionario saveriano padre Vittorino Mosele, di cui avevo chiesto la liberazione. Trattando via etere, fissammo un primo incontro a venti miglia dalla capitale, nel bosco. C’era da fidarsi? Chissà. Siamo andati, con il rappresentante Onu e con una pattuglia di scorta dietro di noi. E ci è andata bene, abbiamo concordato che era meglio discutere con le parole piuttosto che con le armi. Koroma non c’era, era all’estero, incontrammo il capo di allora, Sam Bockarie, detto “mosquito” (zanzara) per la velocità con la quale sapeva colpire e nascondersi, già luogotenente di Foday Sankoh.
Così, un po’ fortunosamente, il processo di pace è andato avanti, mentre continuavano gli scontri (e anche i sequestri dei missionari). Finché il governo decise di nominare ufficialmente una commissione di dialogo con i ribelli, e si stabilì, con la mediazione degli Stati Uniti, di condurre le trattative a Lomé, capitale del Togo, presidente di turno dell’Ecowas.
Era un successo anche e soprattutto dei “capi religiosi”. Continuaste a collaborare?
BIGUZZI: I rappresentanti del Consiglio interreligioso andarono a Lomé – sono stato lì due volte, in tutto due settimane – e all’inizio incontrarono la delegazione dei ribelli, che discuteva sulla linea da adottare. Ripeto, agimmo solo come facilitatori, la mediazione toccò agli Stati Uniti e il trattato fu giostrato direttamente dalle parti in guerra. Così s’arrivò alla firma del 7 luglio del ’99. Ricordo che a Lomé mi fu chiesto di recitare la preghiera d’apertura dei negoziati. Di seguito la recitò il rappresentante musulmano.
Dopo quella firma di luglio, cosa possiamo dire del processo di pace? Non è stato adempiuto…
BIGUZZI: Le morti sono continuate, i rapimenti pure, ma il trattato fino a oggi resiste. Avanza molto lentamente, e per questo ci sono grandi e gravi responsabilità, ma la prospettiva è cambiata: non vi è più stata la guerra totale. E un fatto indicativo è stato appunto quando siamo potuti rientrare pacificamente e celebrare la messa di Natale, apertura del nostro povero Giubileo sierraleonese, nella mia diocesi a Makeni, dove è sempre stata altissima la concentrazione di ribelli. I bambini-soldato, pian piano ma costantemente, vengono rilasciati e li accogliamo nei centri della Caritas locale.
Con questo si arriva fino a oggi, e alla sua presenza, con un manipolo di bimbi sierraleonesi, in piazza San Pietro al Giubileo dei bambini. Ma perché una tale tragedia è potuta accadere? Cosa ne pensavano i “capi religiosi”, come ne discutevate tra voi?
BIGUZZI: Il punto di vista del Consiglio interreligioso sulle reali cause del conflitto era concorde. Sapevamo che nei vertici dello Stato la corruzione dilagava, e che vi erano interessi fortissimi: i diamanti. A chi poteva giovare economicamente il disastro nei poteri pubblici? Alle compagnie diamantifere, rispondevamo. E non ci interessava indagare oltre: forze occulte, corruzione e i ribelli erano fattori potenti e di per sé sufficienti a scatenare la guerra civile.
Alle compagnie minerarie il caos è convenuto. Non si pagano più le concessioni. La via di smercio è diretta: i ribelli, occupate le aree diamantifere, prendono i diamanti grezzi con il setaccio, li passano alla locale lobby libanese, che vi fa un buon guadagno rivendendole alle compagnie a un prezzo per esse ancora conveniente, e di certo inferiore a quello che avrebbero versato in regime di concessione pubblica. I diamanti sierraleonesi sono notoriamente molto apprezzati. Dai mercati europei arrivano stime che parlano di vendite per centinaia di milioni di dollari, cento volte più di quello che il governo di Freetown dichiara: il traffico illegale, voluto e/o subìto è smisurato.
Appendice interessante: da quando i ribelli si sono impadroniti delle zone diamantifere, la Liberia, che ha risorse minerarie minori, ha invece di colpo moltiplicato l’export…
Visto il loro indubbio potere locale, non avete pensato di far partecipare in qualche modo ai colloqui le compagnie minerarie?
BIGUZZI: Ufficialmente non sono più presenti nel Paese. Siamo andati invece da Charles Taylor, uomo forte della Liberia e antico “patron” di Fodey Sankoh. Lui ha ammannito la sua versione, ma ha avuto con noi momenti di sincerità. «Volete sapere perché Sankoh ha iniziato la guerra? Per il potere. Offritegliene una parte e lo scontro cesserà», è stata la sua confessione. Nudo e crudo.
A proposito di influenze straniere, si è ventilata l’ipotesi anche di una certa pressione libica. È così?
BIGUZZI: Sankoh affermava di essere stato per cinque anni alla scuola di Gheddafi. Certo, l’idea di Gheddafi di affermare l’indipendenza dei Paesi africani affrancandoli da ogni tipo di influenza coloniale, insieme con il suo desiderio di essere una grande potenza regionale in Africa è penetrata in Sierra Leone. Ma la Libia non ha responsabilità specifiche e dirette. Sankoh dice di essere musulmano e cristiano allo stesso tempo.
L’influenza di Londra?
BIGUZZI: È ancora quella storica, tradizionale, potente. Ma già il vecchio presidente Shiaka Stevens, s’atteggiava a socialista, inviava le truppe sierraleonesi ad addestrarsi a Cuba e aveva scelto il rosso come colore ufficiale. Una volta che lo incontrai mi disse: «Noi abbiamo bisogno di autenticità». Il motto di Joseph Momoh [al governo prima di Kabbah, cacciato nel ’92 dal golpe del capitano Valentine Strasser, ndr] era pressappoco: “Mangiamo dove possiamo”.
Nell’accordo di pace si affronta già il problema del dopo, della ricostruzione e come via maestra si ipotizza l’amnistia.
BIGUZZI: Il Consiglio interreligioso affrontando il tema dell’amnistia ha cercato per prima cosa il bene del popolo. Abbiamo detto: «I crimini commessi restano crimini, ma pur di ottenere la pace, accettiamo l’amnistia». Se avessimo affrontato questo problema nell’ottica del diritto internazionale e della tutela dei diritti umani non ne saremmo mai potuti uscire. La tutela o la pastorale dei diritti umani non può aiutare quanto la conversione del cuore e la misericordia di Dio. «L’amnistia che Dio ci offre è il sacramento del perdono», questo suggerivo ai poveri cristiani sierraleonesi, ai miei amici, a tutti.
Per difendere i diritti umani invece, occorre per esempio far capire ai ribelli che sono stati e saranno responsabili dei loro gesti, che la guerra non è un alibi che tutto copre. Cioè far capire che Sankoh non può dire «la guerra è la guerra» perché esiste la categoria dei crimini di guerra. Ma questo è un altro discorso.
Ma la pace procede?
BIGUZZI: Si è prevista anche una forma di risarcimento delle vittime, fa parte della ricostruzione fisica e morale del Paese. Ma non c’è da sperarci per il momento. Le Nazioni Unite rimangono di certo un tassello molto importante del puzzle, ma agiscono con lentezza, talvolta sinceramente inspiegabile.
L’Unicef ci aiuta, ci serve anche come “copertura” istituzionale. Ci danno fondi. C’è anche la Caritas tedesca, e da un po’ quella olandese. La Caritas italiana si era dimostrata disponibile, poi il programma di recupero dei bambini-soldato è stato fatto proprio dal Giubileo dei bambini, e ne siamo stati contenti. Come pure dell’aiuto che ci ha dato la squadra di calcio della Roma.
Nel febbraio del ’99 il commissario europeo per gli aiuti umanitari Emma Bonino venne appositamente in Sierra Leone. Dopo quel momento quale è stato l’atteggiamento dell’Europa?
BIGUZZI: Allora non riuscii a incontrare la Bonino, ma certo la Ue non si è fatta sentire granché. Peraltro, ai rapporti con l’Europa era “delegato” l’ambasciatore inglese in Sierra Leone, che è sempre stato convinto che l’unico modo di arrivare alla pace era continuare la guerra, fino alla sconfitta dei ribelli. Il suo rapporto preferenziale era con gli Stati Uniti, che avevano lì anche l’osservatore militare.
Comunque, il rappresentante dell’Unione europea in Sierra Leone ancora non c’è, e quello pro tempore che a un certo punto arrivò, non si era ambientato bene… Il nunzio non si è mai occupato della questione del processo di pace. Infine, la Francia non ha un’ambasciata in Sierra Leone ma in Guinea, e del suo atteggiamento in questa guerra è difficile tracciare una direzione univoca.
Non le è mancata la solitudine nel perorare la causa del Paese più povero del mondo.
BIGUZZI: Di appelli ne abbiamo fatti tanti, per la pace, per salvare questi bambini, per riunire le famiglie, per ricostruire il Paese. C’è sempre il rischio di pensare che la soluzione ottimale per risolvere i problemi risieda nel creare una struttura apposita, efficace. Non che non serva tutto questo, ma preferisco la quotidianità, innanzitutto lo stare a contatto con i bambini ad esempio.
Ora cosa le chiedono i suoi sierraleonesi?
BIGUZZI: La fine reale della guerra. E poi che i loro figli possano tornare a scuola. che tutti possano ricominciare a lavorare – anche perché i sierraleonesi sono bravi nel commercio! –, ed a circolare liberamente: quando 26 anni fa arrivai in Sierra Leone, noi missionari potevamo viaggiare di notte per ore, senza pericoli…
C’è qualche immagine che le ritorna spesso in mente?
BIGUZZI: Ho scolpita negli occhi la prima volta, nel luglio ’99, dopo l’accordo di pace, che sono ritornato a Makeni: la paura nei volti, i segni della fame, degli orrori fisici, la disperazione, il vuoto. E poi ricordo quando con i missionari siamo potuti tornare, e si sono raccolti a centinaia nella strada a battere le mani, a salutarci, pieni di gioia perché eravamo di nuovo là, sebbene per una visita soltanto. La speranza li faceva comportare così, e con gesti inequivocabili ci chiedevano da mangiare.
La comunità cristiana sierraleonese è un gregge fedele?
BIGUZZI: Vengono a messa e ai sacramenti con assiduità. A dire il vero sono un popolo religioso già in partenza, e nella cultura locale è un insulto essere additato come uno che non crede in Dio. Questo vale sia per le comunità cristiane che per i seguaci delle religioni tradizionali, e certo per i musulmani. Tra le comunità religiose vige una solida tolleranza, che meraviglia positivamente nella vita quotidiana. Al di là di tutto ciò, i sierraleonesi per loro fortuna hanno esperienza del cristianesimo.
E amano qualche santo, in particolare?
BIGUZZI: Vogliono bene prima di tutto a Gesù, e lo esprimono soprattutto – seguendo un certo uso protestante – scrivendo un po’ dovunque frasi tipo “Gesù è la risposta”, “Gesù salvatore”, “È il sangue di Gesù che ci libera”.
Poi sono devoti alla Madonna, a “Mama Mary”, così la invocano.
È dipeso dalle circostanze e dai missionari che conoscessero un santo oppure l’altro. Qui vogliono bene a sant’Agostino. Accadde per coincidenza: il primo vescovo venuto quaggiù si chiamava Augusto, e poi Agostino è per antonomasia il santo africano. Così, nel nostro piccolo, è stato facile dedicare ad Agostino il nostro primo istituto magistrale. E ora stanno arrivando anche i Padri agostiniani…


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