Un Ermitage a luci spente
Chiude una delle mostre-evento dell’anno, «I 100 capolavori dell’Ermitage», allestita nelle antiche Scuderie del Quirinale, a Roma. Un’esposizione memorabile, con qualche neo
di Carlo Montarsolo
«Si vede poco», ho più volte sentito mentre giravo nelle
sale – per altro assai bene ricavate dalle antiche Scuderie del
Quirinale, con la regia di Gae Aulenti – dove sono esposti i
“100 capolavori” provenienti dall’Ermitage di
Pietroburgo. L’evento è senza dubbio “memorabile”
se si tien conto del numero delle opere e della prestigiosa provenienza.
Molto bene propagandato dai mass media, ha provocato, come era lecito
pensare, l’affluenza di una gran folla di visitatori, tale da
ricordare la lunga fila per la mostra di Van Gogh alla Galleria di Valle
Giulia, anni addietro. L’organizzazione è quasi scientifica,
con vari incaricati all’ingresso e in ogni sala dove giovani donne
con telefonino indicano, sollecitano, sorvegliano. Per evitare
l’estenuante attesa occorre prenotarsi, oppure far parte di un
gruppo. Ho avuto la possibilità di visitare più volte la
rassegna, accompagnando in particolare molti amici rotariani e spiegando
loro più le ombre che le luci della mostra. Ho potuto così
fare un’analisi “professionale” e
“obbiettiva” (da “decano” addetto, con mezzo secolo
di esperienza) delle opere esposte. Ed ecco le mie impressioni.
C’è una diffusa
“oscurità” nelle sale. I dipinti si vedono poco e male,
come da lontano. Gli stessi nomi degli autori e relativi titoli, misure e
date, sono illeggibili. Io penso che il dipinto vada “letto”
come un libro la cui scrittura sia facilmente decifrabile. Forme, colori e
“contenuti” devono essere bene illuminati. E non si dica che la
luce elettrica può nuocere alla pasta cromatica della tela dipinta.
È il divenire del tempo che può inevitabilmente
“abbassare il tono” della pittura, e cioè renderla
più scura. In special modo, il “bianco di zinco o
titanio”, anche se impastato con altri colori, tende ad alterarsi. I
materiali impiegati dai pittori (il colore ad olio, le tempere, le aniline,
i diluenti) non sempre in passato furono di buona qualità. Pensare
che sia la luce delle lampade o dei faretti a danneggiare il quadro
è da provare.
Le sale dedicate alla grafica sono pressoché buie, ed è forse la parte qualitativamente più importante della raccolta. Illuminare nella maniera giusta un dipinto è cosa indispensabile e niente affatto facile. E però occorre provarci affinché i quadri siano ben letti e valorizzati se di buon autore. Lo dico spesso ai miei amici ed estimatori.
Un “Ermitage a luci spente”, dunque. Ma, nella mostra in parola, le luci vive e inebrianti che emanano i “capolavori” dei più grandi artisti del secolo, non tutte arrivano a conquistarci lo spirito e rallegrare l’anima. L’esposizione muove troppi “interessi” non solo culturali e artistici, perché tutti i “cento” dipinti siano “capolavori” da conoscere e ammirare. Certo, i nomi degli autori sono di tale eccelsa rinomanza storica e critica, da consentire anche a Roma una operazione didattica (sull’arte moderna) di cui la Città eterna ha bisogno. Ma spesso i veri capolavori, anche per ragioni di assicurazioni a seconda del valore che li distingue, rimangono nei musei e nelle pinacoteche più famosi, inamovibili.
Agli amici (che cercavano di ascoltarmi, in un brusio assordante per la troppa gente in pellegrinaggio) ho indicato le opere più significative e riuscite, così come sono apparse a me pittore. Ho evitato di soffermarmi davanti a talune meno felici, anche se di sommi artisti, oppure di autori minori anch’essi provenienti dall’Ermitage.
Il pittore che più mi ha colpito è Matisse, considerato il capo dei Fauves, la corrente artistica più irrequieta e scapigliata di quell’ambiente di grandi talenti che all’inizio del Novecento emergevano a Parigi. La “danza” in cerchio di donne nude e mirabilmente stilizzate, su fondo verde e bleu, di vaste proporzioni, accoglie il visitatore. Emana dalla tela come una musica allucinata e ancestrale, le cui note ho cercato di trasfondere negli amici attoniti. Ma è da vedere tutta la grande sala dedicata a Matisse, cogliendone la decoratività nello stile scabro ma rilucente dei colori appena appoggiati sulla tela di vaga e geniale consistenza (è presente la Stanza rossa, forse l’opera più avvincente e significativa di tutta la mostra). Gli Impressionisti sono in evidenza più che negli illustrativi paesaggi di Pissarro e Sisley (intenti, con Monet, a rendere quel “plen-air” di cui Corot e Courbet non avevano idea), nei ritratti femminili di Renoir, l’unico pittore della storia dell’arte che abbia reso l’incarnato del viso, del seno o delle mani di una giovane donna (sul biglietto d’ingresso c’è lo splendido morbido sembiante di una ragazza con cappellino). Di Paul Cézanne, padre indiscusso della pittura moderna (per vedere i suoi “capolavori” bisogna andare a Parigi, Musée d’Orsay), l’Ermitage ha inviato tre dipinti – una figura, un paesaggio, una natura morta – piuttosto “scuri” dove poco risplendono le vibrazioni di colore-forma del genio di Aix. Stessa cosa per i quadri di Gauguin e qualche piccola tela di Van Gogh. Fra i disegni, appena intravisti nell’ombra, si notavano il famoso nudo maschile del Picasso figurativo, e qualche tempera dello stesso e di Braque, del periodo cubista. Tutto qui.
Chiudono la mostra due grandi tele di Picasso: una donna seduta e una donna con ventaglio, buttate giù sulla tela con una pennellata nervosa e infastidita, tale da ritenere che le due opere siano incompiute. Non credo che esse si possano considerare “capolavori” del grande pittore catalano. «100 opere provenienti dall’Ermitage». Mi pare che la mostra dovesse essere annunciata così.
Appena fuori, la luce dorata sugli intonaci antichi del Quirinale rideva, nelle ocre, al sole assai dolce di Roma.
La mostra, che si è chiusa l’11 giugno, ha richiamato più di cinquecentomila visitatori
Le sale dedicate alla grafica sono pressoché buie, ed è forse la parte qualitativamente più importante della raccolta. Illuminare nella maniera giusta un dipinto è cosa indispensabile e niente affatto facile. E però occorre provarci affinché i quadri siano ben letti e valorizzati se di buon autore. Lo dico spesso ai miei amici ed estimatori.
Un “Ermitage a luci spente”, dunque. Ma, nella mostra in parola, le luci vive e inebrianti che emanano i “capolavori” dei più grandi artisti del secolo, non tutte arrivano a conquistarci lo spirito e rallegrare l’anima. L’esposizione muove troppi “interessi” non solo culturali e artistici, perché tutti i “cento” dipinti siano “capolavori” da conoscere e ammirare. Certo, i nomi degli autori sono di tale eccelsa rinomanza storica e critica, da consentire anche a Roma una operazione didattica (sull’arte moderna) di cui la Città eterna ha bisogno. Ma spesso i veri capolavori, anche per ragioni di assicurazioni a seconda del valore che li distingue, rimangono nei musei e nelle pinacoteche più famosi, inamovibili.
Agli amici (che cercavano di ascoltarmi, in un brusio assordante per la troppa gente in pellegrinaggio) ho indicato le opere più significative e riuscite, così come sono apparse a me pittore. Ho evitato di soffermarmi davanti a talune meno felici, anche se di sommi artisti, oppure di autori minori anch’essi provenienti dall’Ermitage.
Il pittore che più mi ha colpito è Matisse, considerato il capo dei Fauves, la corrente artistica più irrequieta e scapigliata di quell’ambiente di grandi talenti che all’inizio del Novecento emergevano a Parigi. La “danza” in cerchio di donne nude e mirabilmente stilizzate, su fondo verde e bleu, di vaste proporzioni, accoglie il visitatore. Emana dalla tela come una musica allucinata e ancestrale, le cui note ho cercato di trasfondere negli amici attoniti. Ma è da vedere tutta la grande sala dedicata a Matisse, cogliendone la decoratività nello stile scabro ma rilucente dei colori appena appoggiati sulla tela di vaga e geniale consistenza (è presente la Stanza rossa, forse l’opera più avvincente e significativa di tutta la mostra). Gli Impressionisti sono in evidenza più che negli illustrativi paesaggi di Pissarro e Sisley (intenti, con Monet, a rendere quel “plen-air” di cui Corot e Courbet non avevano idea), nei ritratti femminili di Renoir, l’unico pittore della storia dell’arte che abbia reso l’incarnato del viso, del seno o delle mani di una giovane donna (sul biglietto d’ingresso c’è lo splendido morbido sembiante di una ragazza con cappellino). Di Paul Cézanne, padre indiscusso della pittura moderna (per vedere i suoi “capolavori” bisogna andare a Parigi, Musée d’Orsay), l’Ermitage ha inviato tre dipinti – una figura, un paesaggio, una natura morta – piuttosto “scuri” dove poco risplendono le vibrazioni di colore-forma del genio di Aix. Stessa cosa per i quadri di Gauguin e qualche piccola tela di Van Gogh. Fra i disegni, appena intravisti nell’ombra, si notavano il famoso nudo maschile del Picasso figurativo, e qualche tempera dello stesso e di Braque, del periodo cubista. Tutto qui.
Chiudono la mostra due grandi tele di Picasso: una donna seduta e una donna con ventaglio, buttate giù sulla tela con una pennellata nervosa e infastidita, tale da ritenere che le due opere siano incompiute. Non credo che esse si possano considerare “capolavori” del grande pittore catalano. «100 opere provenienti dall’Ermitage». Mi pare che la mostra dovesse essere annunciata così.
Appena fuori, la luce dorata sugli intonaci antichi del Quirinale rideva, nelle ocre, al sole assai dolce di Roma.