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BACHELET VENT’ANNI DOPO
tratto dal n. 05 - 2000

Lo stile di un uomo che voleva servire


A vent’anni dalla morte di Vittorio Bachelet, il vicepresidente del Csm assassinato all’Università di Roma La Sapienza dalle Brigate rosse. Molte sue idee restano attuali e molte questioni legate ai temi della giustizia che egli sollevò si sono aggravate in questi anni


di Giovanni Conso


È certo tragicamente vero: l’agguato, che sul mezzogiorno del 12 febbraio 1980, ci ha per sempre tolto, in un attimo di spietata crudeltà, Vittorio Bachelet, gli è stato teso sulle scale della facoltà universitaria dove ogni lunedì mattina, nonostante i suoi molteplici impegni istituzionali, si recava con ammirevole puntualità per tenere lezione agli studenti, lui da anni docente appassionato e scrupoloso di diritto pubblico.
Vittorio Bachelet. Il giurista è stato assassinato dalle Brigate rosse 
il 12 febbraio 1980

Vittorio Bachelet. Il giurista è stato assassinato dalle Brigate rosse il 12 febbraio 1980

Ma è altrettanto certamente vero che sia la storia socio-politica che quella giuridico-processuale dovrebbero avere ormai chiarito che le Brigate rosse ne avevano decretato l’eliminazione a qualunque costo, più ancora che per il fatto che egli impersonava in quel periodo di così cruciale emergenza il Consiglio superiore della magistratura e, quindi, simbolicamente, l’intera magistratura, per il come stava impersonando, con nobiltà pari all’efficacia, sia l’uno che l’altra.
Non per nulla l’impronta data da Vittorio Bachelet alla conduzione del Consiglio superiore in poco più di tre anni (ma quali anni!) era stata, anzi è stata, tale da far coniare con immediatezza, già all’indomani del suo sacrificio, due espressioni significative, quali, in ottica soggettiva, “stile Bachelet” e, in ottica oggettiva, “modello Bachelet”: uno “stile” improntato all’assoluto rispetto delle opinioni altrui, rispetto che ne postulava la sottoposizione a pacato e paziente confronto, ed un “modello” imperniato sull’idea di servizio, un servizio che la sua umiltà spingeva al punto di intenderlo riferito non solo, anche se in primis, alle istituzioni e alla società civile, ma pure ai colleghi, tanto da farlo non di rado rivolgere loro dicendosi «il vostro servitore», benché essi fossero subordinati alla sua guida.
Questo atteggiamento, anzi questo animus, di estrema disponibilità alla comprensione nei confronti di tutti i componenti del Consiglio, e da tutti i componenti subito apertamente ricambiato per la sua forza trainante, è stato la fonte prima di quell’atmosfera collaborativa prontamente instauratasi all’interno del “suo” Consiglio superiore. Bastò a destarlo in un istante il caloroso abbraccio scattato fra noi, amici da lungo tempo, non solo perché colleghi universitari, ma anche perché legati dal comune sentire cattolico e vincenziano.
Lo testimoniarono immediatamente le primissime parole del suo discorso di insediamento, quando, dicendosi fiducioso di poter «contare sullo spirito di quel largo incontro che tutte le persone qui presenti hanno dichiarato di voler realizzare nella conduzione del comune impegno nel Consiglio superiore della magistratura», Bachelet volle rimarcare che «questa sintonia è sottolineata dal fatto che i voti non venuti a me sono andati al professor Conso a cui sono legato da comunanza di ideali e da tale antica amicizia, da potersi quasi assumere a emblematico significato del desiderio di incontro dell’intero Consiglio». Ed effettivamente, lungi dall’essere state presentate come contrapposte, le due candidature erano state mantenute con l’assenso dello stesso Bachelet al fine di poter eventualmente disporre di una seconda scelta in relazione all’andamento delle operazioni di voto, non essendo da escludere altre possibilità.
Tutto il “dopo” quell’illuminata elezione sino al momento della sua morte (ma anche il “dopo” ancora: il suo insegnamento non era più eludibile) non avrebbe fatto altro che confermare la “sintonia” da lui intuita, auspicata e resa concreta, così permettendo al Csm di affrontare con dignitosa coerenza tanti momenti non solo difficili, ma anche difficilissimi, in piena spirale terroristica, segnata dal sangue di molti magistrati, dell’avvocato Fulvio Croce, del giornalista Carlo Casalegno e persino di semplici cittadini (uno per tutti: un mio caro allievo genovese, Renato Briano), passando attraverso le tormentose, agghiaccianti vicende del sequestro Moro.
Un ricordo in particolare non posso tacere nemmeno in questo momento, anche perché è il ricordo, per giunta strettamente personale, del mio addio a lui in vita. Era la sera del 9 febbraio 1980, poco dopo conclusa la seduta consiliare che sarebbe stata l’ultima sua, una seduta estenuante, sfociata, grazie a un’opera di paziente cucitura presidenziale, nell’approvazione di un importante documento, molto atteso anche dall’opinione pubblica.
Vittorio Bachelet in udienza da Paolo VI, nel 1973

Vittorio Bachelet in udienza da Paolo VI, nel 1973

Anziché chiamarmi nel suo ufficio presidenziale, come era accaduto altre volte, Vittorio mi raggiunse a sorpresa nella mia stanza, abbandonandosi visibilmente stanco, ma altrettanto visibilmente disteso, sulla poltrona riservata all’ospite. Era venuto a confidarmi la soddisfazione per il raggiungimento di un esito così positivo e per l’ancora una volta constatata atmosfera di comunanza d’impegno. E mi aveva pure parlato di progetti, esponendomi nuove idee, senza, peraltro, tacermi le preoccupazioni per lo scenario tuttora cupo che avvolgeva il Paese, incombente in special modo sulla magistratura, ma sempre con lo sguardo e il pensiero rivolti verso l’alto, dispensando, come suo solito, lampi di confortante serenità.
Fra il tantissimo che, dunque, ho da conservare di lui nella memoria, nella mente e nel cuore, spiccano alcuni brani di discorsi pronunciati quale vicepresidente del Csm. Così, nell’indirizzo di saluto rivolto il 13 luglio 1978 a Sandro Pertini in occasione della sua elezione alla presidenza della Repubblica, spicca quello in cui Bachelet rilevava che «sarebbe da stolti nascondersi che le difficoltà in cui versa l’amministrazione della giustizia hanno creato fra i magistrati uno stato di disagio e di inquietudine che va al di là delle manifestazioni che più clamorosamente l’hanno espresso e che richiede da un lato alcuni provvedimenti urgenti, ma dall’altro anche una solidarietà morale e civile impegnata in prima linea nella tutela della sicurezza e della libera civile convivenza dei cittadini dagli attacchi della criminalità organizzata e dalla violenza terroristica».
Con analogo vigore, in un incontro di studio tenutosi all’Università di Camerino nel maggio 1979, egli sottolineava come «l’attenzione che la nostra Costituzione ha per la persona, per le formazioni sociali e naturali in cui la persona si esprime, fra esse in modo particolarissimo per la famiglia, che riconosce come formazione naturale, essenziale per la crescita della persona, dimostri che questi sono aspetti essenziali per la vita del Paese. La Costituzione pone nella prospettiva dei valori costituzionali una particolare ragione di attenzione e vorrei dire di rispetto per la realtà della famiglia, da parte del legislatore e poi da parte del giudice. Mi pare che debba essere fatto uno sforzo di adeguamento della normazione alla realtà esistenziale della famiglia. Anche l’applicazione della norma deve adeguarsi alle esigenze profonde, alle caratteristiche profonde del rispetto della famiglia ed in essa della persona. Questo è difficile, ma particolarmente importante nel momento in cui viviamo, in cui la realtà della società, in parte anche la realtà della famiglia, sono in fase di movimento e di trasformazione».
Ecco ora un paio di brani tratti da un’intervista a Antonio De Feo per il quotidiano Il Mattino del 30 luglio 1979: «Dovremmo avere imparato che varare riforme normative senza predisporre anche tempestivamente i mezzi e le strutture necessarie vanifica le finalità che si vorrebbero raggiungere. Se il “terzo potere” perde colpi la responsabilità è, quindi, anche e specialmente degli altri due poteri, il legislativo e l’esecutivo, che non “fanno la loro parte”. Ma molte altre accuse vengono di frequente rivolte ai giudici: un calo di produttività che provoca il crescente aumento della durata dei processi civili e penali, la sempre maggiore “politicizzazione”. Non credo che si possa dire che vi è un calo di produttività negli uffici giudiziari. Al contrario la produttività globale è forse aumentata; ma soprattutto nei centri grandi e medi la “domanda di giustizia” è cresciuta a sua volta ed in misura più che proporzionale alla produttività, restando perciò parzialmente insoddisfatta. Da questo dipende in gran parte l’aumento della durata media dei processi civili e penali. Si deve aggiungere che in molti casi i magistrati lavorano in condizioni ambientali (locali) e di struttura (personale, attrezzature) assolutamente insufficienti. Fra le cause della crisi vi sono senza dubbio anche la cattiva distribuzione geografica dei magistrati e le carenze di organico».
Finirò riprendendo da un altro incontro di studio a Napoli nel novembre 1979 queste coraggiose parole: «C’è uno scarico di tensioni sociali sulla magistratura, sui magistrati» con «il rischio che laddove le soluzioni non si riescano a trovare sul piano legislativo o politico, si facciano norme un po’ ambigue in modo che poi se la sbrighi l’interprete, cioè il magistrato, nell’applicarle. Vorrei però che non si dimenticasse che noi oggettivamente ci troviamo in una situazione di grande difficoltà; siamo, nonostante tutto, ancora abituati agli schemi di una società stabile, mentre siamo in una fase in cui ci troviamo a camminare su una ruota girevole. La realtà vera in cui operiamo, tutti, magistrati, professori universitari, ingegneri, politici è complessa. C’è il rischio dello scaricabarile ed ognuno può pensare che la colpa della situazione sia la non completa efficienza di altri settori, di altre responsabilità. Questo molte volte è vero, ma credo che sia vera anche un’altra cosa, e cioè che in questa situazione difficile solo attraverso un esercizio attivo e responsabile delle funzioni proprie a ciascuno, per la parte che gli compete, con attenzione anche alla realtà sottostante all’azione che professionalmente ciascuno svolge, si possa raggiungere l’obiettivo di mantenere, nonostante tutto, la possibilità di camminare, di andare avanti, in una società in così rapida trasformazione ed evoluzione».
Sono passati vent’anni e più: eppure tutti questi concetti da lui pacatamente, ma altrettanto chiaramente, esposti con la limpidezza di chi, con modestia pari all’intelligenza, dice il vero, conservano un’attualità sorprendente. Addirittura acuita dall’aggravarsi dell’intera problematica.


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