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CONVEGNI
tratto dal n. 05 - 2000

Il latino, la lingua dell’accadere


A Bologna si è discusso del ruolo della cultura latina nell’Unione europea. In questa intervista il professor Ivano Dionigi spiega: «Il latino è, per così dire, geneticamente una lingua temporale. Poggia tutta sul verbo, e il verbo costituisce la dimensione diacronica e temporale per eccellenza: presente, passato e futuro. Come diceva Baudelaire, il verbo è l’angelo del movimento che dà spinta alla frase»


Intervista con Ivano Dionigi di Giovanni Ricciardi


«Pater optime, ubi est mensa pauperorum?». Sono parole della Tregua di Primo Levi. In un latino faticoso, non del tutto ortodosso, il protagonista del romanzo chiede a un sacerdote incontrato per caso nelle vie di Cracovia un luogo dove poter trovare un boccone di pane, negli ultimi sussulti della seconda guerra mondiale. Le reminiscenze di un latino imparato sui banchi di scuola erano servite a stabilire una comunicazione, trasmettere un messaggio, evocare un’identità.
Ritratto di Virgilio, fine V secolo d. C., codice detto “Virgilio Romano”, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano

Ritratto di Virgilio, fine V secolo d. C., codice detto “Virgilio Romano”, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano

L’episodio, suggestivo per le circostanze drammatiche in cui è collocato, introduce in modo immediato al tema dibattuto il 12 e 13 maggio scorso in un convegno internazionale svoltosi all’Arena del Sole di Bologna e dedicato a «La cultura latina nell’unità europea». Promosso da Nuova scena-Teatro stabile di Bologna nell’ambito delle manifestazioni organizzate per «Bologna 2000 Città europea della cultura», il Convegno ha voluto discutere il ruolo della cultura latina nell’Unione europea a partire dalle sue radici storiche, classiche e medioevali, per allargarsi ad altri ambiti: soprattutto quello dell’espansione e della “conquista” anche linguistica della cultura latina nel Nuovo mondo; e quello del linguaggio teatrale e cinematografico. Un tema, quello del rapporto tra Europa e romanità, affrontato di recente in un suggestivo saggio del filosofo francese Rémi Brague (vedi box).
Il professor Ivano Dionigi – docente di Letteratura latina all’Università di Bologna, ideatore e responsabile del Centro studi La permanenza del classico – ha illustrato al Convegno una significativa relazione dal titolo: «Il latino: la parabola di un modello?». A lui abbiamo rivolto alcune domande.

La lingua e la cultura latine sono ancora oggi un fattore vivo e operante per l’Europa?
IVANO DIONIGI: Dal punto di vista strettamente linguistico direi di no, nonostante le nostalgiche sodalitates soprattutto nordeuropee. Il latino continua ad avere una funzione mediatrice di segni e forme linguistiche, ma non è immediatamente né vivo né operante come strumento comunicativo. È vero che il latino è inaspettatamente presente anche in ambiti lessicali attualissimi come quello informatico. La parola “computer” è parola latina (da computare), benché ritorni nella nostra lingua come prestito dell’inglese; la stessa chiocciola @ della posta elettronica, l’at inglese, rinvia al latino ad. Ma si tratta ormai di “fossili” linguistici e direi che la spinta propulsiva del latino come lingua non sia più efficacemente presente. Diversa è la questione del portato storico e culturale del latino.
Perché?
DIONIGI: Per la sua straordinaria duttilità, il latino è stato lo strumento della conservazione, dell’assorbimento e della trasmissione della cultura classica, permettendo però al tempo stesso identità e diversità, unità e molteplicità del sapere europeo. È stato quindi un potente fattore generativo di nuove lingue e di nuove culture. Nella storia linguistica e culturale dell’Europa, il latino, certo, ha avuto ruoli diversi passando, nel tempo – come ha ben delineato Françoise Vaquet –, da una fase di “monopolio”, a una di “primato” sulle parlate volgari, fino alla fase attuale, che potremmo definire della “opzione”. Ma il latino ha segnato la struttura stessa della tradizione europea. È stata la lingua del potere, certo, anzi dei tre poteri: scuola (studium), Chiesa (sacerdotium), Stato (imperium); ma grazie alla sua universalità e alla sua brevitas, è stata anche la lingua della scienza. Per la sua stessa inalterabilità, è stata la forma nella quale è stato trasmesso e fissato il contenuto della fede cristiana.
Quanto all’universalità, si potrebbe forse dire che oggi l’inglese svolge la medesima funzione che il latino ha svolto per molti secoli?
DIONIGI: L’inglese ha di fatto ereditato alcune funzioni universalistiche del latino. Ma chi definisce l’inglese come il latino del XXI secolo, io non so se sia più ignorante o blasfemo. L’inglese è veicolare, lineare: del latino non possiede né il capitale storico né la capacità di adattarsi ad esprimere contenuti diversi. Il latino è metamorfico.
Dunque il latino può svolgere ancora una funzione nell’Europa di oggi?
DIONIGI: Qualche giorno fa l’Unione europea ha scelto il suo motto: In varietate concordia, che non a caso è un motto latino. Concordia, unità, nella diversità; e l’Europa ha il volto della diversità così come il latino si esprime nella sua natura multiforme, pur essendo uno. Il latino è la possibilità storica di questa diversità. Quanto al valore della sua conservazione, non è un problema di contrapposizione tra classicisti e non classicisti, non è un problema accademico o corporativo. È, semmai, un problema di senso della storia.
In che senso?
DIONIGI: Basti pensare alla scuola. Gramsci diceva: un giorno bisognerà sostituire il latino e il greco come discipline fulcro nella scuola. Ma – aggiungeva preoccupato – non sarà semplice scegliere la materia o la serie di materie capaci di sostituirli e di assicurare la formazione della persona. Lo scenario che disegnava allora è sotto i nostri occhi. E i due fuochi di questo scenario sono l’antico, che si è fatto Europa, e il moderno, che si è fatto mondo. Allora oggi, per dirla con Adriano Prosperi, all’antico “monoteismo” del latino si è sostituita la “trinità scolastica” fatta di internet, inglese di base e Novecento. È la standardizzazione, la mancanza di prospettiva storica che irrompe sulla scena. Noi viviamo al centro di un’esplosione, di un rovesciamento; per dirla con il termine greco, una “catastrofe” che sta cambiando il mondo. È la cultura-mondo. Questo – come sottolineava Aldo Schiavone in un recente dibattito sulla classicità – lo sta sperimentando soprattutto il mondo occidentale, proprio quello che ha conosciuto la diacronia, la consapevolezza del passato e che oggi riconosce la signoria unica del presente, della simultaneità, e va smarrendo le categorie di tempo, di distanza e di differenza, per sostituirle con quelle di connessione, di globalità, di “interfacciabilità”, parola, questa, quanto meno imbarazzante.
L’uomo europeo, educato alla coscienza classica del tempo, della distanza e della differenza, ha dato forma alla diacronia, che questa “connessione totale” oggi semplicemente cancella.
Qual è il legame fra la lingua e la cultura latine e lo svilupparsi nella coscienza europea di questa dimensione del tempo che oggi si va perdendo?
DIONIGI: Innanzitutto direi che questo è avvenuto anche grazie al fattore linguistico. Il latino è, per così dire, geneticamente una lingua temporale. Rispetto ad esempio al greco, che è lingua prevalentemente nominale, la lingua latina poggia tutta sul verbo, e il verbo costituisce la dimensione diacronica e temporale per eccellenza: presente, passato e futuro. Come diceva Baudelaire, il verbo è l’angelo del movimento che dà spinta alla frase. Il latino è lingua dinamica, è lingua sub specie temporis. Quindi io comincerei proprio dalla lingua. C’è poi un secondo elemento. A differenza dell’inglese, che è una lingua molto diretta e immediata, il latino è una lingua composita, sintetica, progettuale. C’è un ordo verborum che non è immediato come quello dell’inglese; e anche questo aiuta a guardare più in profondità, non tutto in primo piano, come avviene per una lingua strumentale quale l’inglese. Da questo punto di vista il latino ha molto più spessore. Quando si legge un brano latino tutto il filo del discorso resta sospeso proprio perché c’è un prima, un durante e un dopo proprio all’interno della stessa formulazione linguistica.
In sostanza, l’Europa, da un certo punto di vista, è segnata dal latino, talora in maniera immediata, altre volte in maniera latente, perché l’Europa è figlia di quella storia che ha parlato ininterrottamente latino («le signe européen, c’est le latin», aveva sentenziato De Maistre), divenendo nel tempo matrice delle lingue neolatine dal Mar Nero all’Atlantico. Il latino, grazie alla sua duttilità, al suo lasciarsi fare, ha prodotto i suoi stessi mutamenti. Si pensi solamente al sermo christianus, che si è formato prima adattandosi al latino classico, poi adattando il latino classico a ciò che esso voleva esprimere modellandone a sua volta la fonetica, la morfologia e soprattutto il lessico. L’inglese, al contrario, non si lascia fare, è per sua natura invasivo e dominante.


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