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GUATEMALA
tratto dal n. 05 - 2000

«L’uomo in pezzi lo ripara solo il Signore»


Una giornata insieme a padre Gabriel, comboniano, e Lucy, missionaria laica, che, con alcuni ragazzi di Città del Guatemala, da anni hanno dato vita al Movimento dei giovani della strada


di Davide Malacaria


Si prepara una spedizione di aiuti per le popolazioni colpite dall’uragano Mitch. La furia dell’uragano ha causato in Guatemala centinaia di vittime e mezzo milione di senzatetto. La popolazione dei ragazzi di strada è aumentata del 30% dopo la catastrofe

Si prepara una spedizione di aiuti per le popolazioni colpite dall’uragano Mitch. La furia dell’uragano ha causato in Guatemala centinaia di vittime e mezzo milione di senzatetto. La popolazione dei ragazzi di strada è aumentata del 30% dopo la catastrofe

La guerra è finita. La tragedia che ha investito il Guatemala, con i morti ammazzati, i desaparecidos, gli orrori e le torture, è finita da quando la legge sulla riconciliazione nazionale è entrata in vigore. Restano, innegabili, molti strascichi, non solo la paura, ancora diffusa tra la gente, ma anche la confusione politica. Il fatto che il capo della giunta militare che ha guidato il Paese negli anni più terribili, Efraín Ríos Montt, sia ora il presidente dell’Assemblea parlamentare del Guatemala, la dice lunga sulle ombre di questo dopoguerra. Ma ora, tolta la maschera militare, il potere si presenta con una nuova faccia, meno cruenta. Il Paese vive un periodo di pace e di capitalismo selvaggio, con il suo corollario di miseria estrema e di violenza. Alle connotazioni universali di questo capitalismo, dai fast food alle banche, alla Coca-Cola, si aggiunge, come variante locale, la presenza ossessiva di vigilantes armati che, a ogni negozio, scrutano i clienti con i fucili spianati. È la globalizzazione, forse. Che lascia dietro sé relitti. Alcuni di questi relitti abitano le strade sporche della capitale. Padre Gabriel, comboniano, e Lucy, missionaria laica, assieme ad alcuni ragazzi della città, che da anni hanno dato vita al Movimento dei giovani della strada, tentano di aiutarli. Con l’ironia e il realismo di cristiani che ben conoscono il limite insito nei tentativi umani. I ragazzi della strada sono 2700 nella capitale, cinquemila nel Paese, ma forse sono molti di più. Tanto, chi li va a contare? «Questi ragazzi non sanno fare niente. È un circolo vizioso: non possono uscire dalla strada perché non sanno fare nulla (chi li prenderebbe a lavorare?), ma in strada non imparano a fare niente. Così gli insegniamo qualcosa: leggere, scrivere, disegnare. Non gli diamo soldi, se non come compenso per qualche lavoro. La cosa più importante che diamo loro è l’affetto gratuito, e la possibilità di accorgersi che anche loro sono uomini come gli altri». Già, perché per molti dei passanti che li vedono dormire o girare per le strade della capitale, quei ragazzi sono un’escrescenza fastidiosa, combriccola di ladri e assassini. «La loro vita si basa su quello che hanno ricevuto: la violenza». Commenta Lucy: «Questi ragazzi vanno in strada fin da piccoli. I motivi? Generalmente la violenza dei genitori. La disgregazione delle famiglie qui è un fatto normale: padri con diverse mogli o madri con diversi mariti… E poi la povertà estrema, la droga. Generalmente si fugge da una casa in cui si subiscono violenze continue, a volte anche sessuali. A otto anni, anche meno, sono già sulla strada a tentare di sopravvivere in tutti i modi, in gruppo, per difendersi meglio».

Una casa da cui vedere il cielo
Anni addietro a fare pulizia ci pensavano gli squadroni della morte. Per avere un’idea di quanto avveniva basta leggere, ad esempio, il racconto di uno di questi ragazzi, così come riportato nel libro di Gérard Lutte, Principesse e sognatori nelle strade in Guatemala: «I compagni con i quali ho camminato nella diciottesima strada quando avevo dodici anni già stanno riposando in pace perché li hanno ammazzati quasi tutti… Ringrazio Dio che non mi uccisero perché in quel tempo rubavo con loro. I poliziotti li prendevano, li picchiavano, li buttavano nei burroni, ne uccisero una ventina o più. Anch’io sono stato sequestrato quando avevo quindici anni… Avevo rubato gli occhiali a un signore… Mi prese quando li stavo vendendo, venne con due poliziotti… Mi legarono mani e piedi e le mani dietro la schiena e mi portarono da un’altra parte nella macchina della polizia… Il poliziotto se ne andò e il signore mi disse: “Ora soffrirai molto perché a me i ladri sono antipatici, ti faremo soffrire poi ti ammazzeremo”». Il resto è un racconto di botte, mozziconi di sigarette spenti sulla pelle, infine il volo nel burrone, fortunatamente basso. Storia di un passato che però ancora, a volte ritorna. La violenza, per i ragazzi di strada, è un aspetto del quotidiano. Alcuni mesi addietro il “gruppo della parrocchia”, uno di quelli seguiti da Lucy e padre Gabriel, chiamato così perché il luogo di riunione si trova nelle adiacenze di una chiesa, subisce un attacco. Durante la notte si avvicina al gruppo una macchina dai vetri oscurati e ne scende uno sconosciuto. L’uomo estrae una pistola e, senza motivo, inizia a far fuoco: uno dei ragazzi, Blondy, muore sul colpo, altri rimangono feriti. Agli spaventati superstiti l’uomo urla che li avrebbe uccisi, uno ad uno. Una storia di ordinaria violenza, come tante nelle strade della città.
Il Movimento dei giovani della strada, per ora, è in rapporto con una decina di gruppi. Fino all’anno scorso avevano una casa, un luogo di accoglienza in cui i ragazzi potevano riposare al sicuro la sera. Racconta padre Gabriel: «Alcuni venivano per qualche sera, poi andavano via, poi tornavano di nuovo quando ne avevano voglia. Il richiamo della strada era troppo forte, né li potevamo costringere a restare». La casa che avevano ora non c’è più, perché se ne sta aprendo un’altra più grande, con i lavori ancora in corso. La mostrano come si fa per un luogo caro: «Ne abbiamo voluto una più grande e più bella, perché i ragazzi potessero essere contenti della loro casa. E poi volevamo che avesse un cortile per poter vedere il cielo, l’unico tetto che questi ragazzi conoscono», spiega padre Gabriel, che aggiunge che uscire dalla strada non è facile, anzi. «I fallimenti sono continui. A volte sembra si aprano delle porte, ma poi si richiudono. La droga, le vecchie abitudini sono un legame fortissimo. Occorre tanta pazienza». Ma non c’è tono rassegnato nella sua voce. Più in là indica un piccolo spazio pieno di calcinacci, e aggiunge: «Qui faremo una piccola cappella. Perché noi possiamo fare tante cose… Ma l’uomo in pezzi lo ripara solo il Signore».

Scene di vita  quotidiana di ragazzi di strada 
a Città del Guatemala. Fogli e colori per imparare 
a scrivere

Scene di vita quotidiana di ragazzi di strada a Città del Guatemala. Fogli e colori per imparare a scrivere

Nella strada
Ogni giorno Lucy e i suoi amici percorrono le strade della città a incontrare i ragazzi di strada. Molte delle loro attività si svolgono così, tra marciapiedi e immondizia. Il primo gruppo che visitiamo è quello della Concordia, dal nome del parco dove vivevano prima di essere cacciati in malo modo. Ora dormono su un marciapiede lì vicino. Prima erano in un’altra zona, ma per mandarli via avevano versato dell’olio bruciato sul marciapiede. Sotto i cartoni si affacciano volti smagriti, consumati dalle inalazioni del solvente, la droga dei poveri. La Cina, una di loro, ha un bambino, nato, come spesso accade tra questi ragazzi, nella strada. Lo tiene con sé. Ci raccontano storie di sopraffazioni e angherie. Un curioso si avvicina e chiede perché vivono così, che cosa dice la gente. «La gente aspetta solo che moriamo», risponde pronta la Cina. Il curioso non demorde e inizia a urlare: «Devono essere rinchiusi in un riformatorio». Sono scene usuali, spiega Lucy. A volte capita, in questo gioco cattivo, che quei ragazzi subiscano anche la violenza della gente comune.
Alla Distelsa, il gruppo che prende il nome da un vicino rivenditore di televisori, ci sono solo bambini. Uno di loro, Aroldo, per fare qualche soldo si esibisce come pagliaccio sugli autobus. Lo incontriamo mentre combatte mostri in una vicina sala giochi. Presto alcuni del gruppetto si radunano, attorniano Lucy e il suo accompagnatore e gli fanno festa. Giocano con loro, fino a quando una guardia privata di un vicino negozio gli chiede gentilmente di allontanarsi, mostrando il fucile a pompa. Invito cui non si può dire di no. Antonio, un ragazzino di otto anni, la voce impastata dai fumi del solvente, racconta di come è finito sulla strada, piccolissimo, in fuga da una casa in cui subiva angherie. Ne parla senza acrimonia, ormai quel mondo è passato, ora c’è solo la strada. Uno di loro, per arrotondare, vende il solvente: anche questo è normale tra questi gruppi. Lucy racconta che da qualche tempo è attiva una organizzazione umanitaria, Sendas Nuevas, che prende questi ragazzi dalla strada e li porta a vivere in una casa alloggio molto grande. «Troppo», commenta, spiegando come i ragazzi vengano portati via a forza e che, una volta alloggiati nella grande casa, non possono più uscirne. Una ragazza che loro seguivano ora è lì dentro: quando Lucy è andata a visitarla si è messa a piangere e a chiederle di portarla via, ma non si è potuto fare niente. «Non sappiamo chi c’è dietro questa associazione, dove trovano i finanziamenti, ma riteniamo che ci sia dietro un qualche disegno per “ripulire” le strade dagli indesiderati».
Nella Concha, la Conchiglia, c’è il gruppo più numeroso. Il luogo di riunione è il monumento ad anfiteatro che si trova nella piazza centrale della capitale guatemalteca. Lucy spiega che tra loro c’è molta violenza. E si vede. Arriva al gruppo mentre litigano tra loro, poi il più nervoso si allontana. È diventato così, spiegano, da quando fa uso di crack, una droga che va diffondendosi largamente in questi ambienti emarginati. E che miete molte vittime. Neftali, un ragazzo magro dai capelli corvini, è particolarmente simpatico, scherza con tutti. Ride Lucy mentre racconta di alcune sue gesta, come il furto della sua macchina fotografica e di una chitarra della casa. È l’ora di pranzo, e alcune ragazze, messe insieme alcune cibarie, cucinano su un vicino muretto sotto gli sguardi curiosi ed ostili dei passanti.
Molti di questi ragazzi vengono dalle favelas che circondano la capitale. Padre Gabriel deve visitare una di queste, contrada Limón: è morto il padre di René, uno dei ragazzi che lavorano con lui. Tra le lamiere contorte, i liquami, un formicolare di gente che difficilmente mangia una volta al giorno, alla guida della jeep padre Gabriel commenta: «Per anni hanno rimproverato la Chiesa di attentare alla cultura e alle tradizioni indios solo perché insegnava a questa povera gente il Padre nostro e l’Ave Maria. Ora, in pochi anni, la globalizzazione, come si chiama adesso, ha disintegrato tutto, quelle preghiere cristiane e la cultura indigena…». Non c’è nostalgia né recriminazione nel tono della sua voce. È una semplice constatazione di chi la realtà la conosce molto da vicino. E che può dire, con un sorriso, che l’uomo in pezzi lo ripara solo il Signore.


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