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GUATEMALA
tratto dal n. 05 - 2000

Caso Gerardi. Una sfida continua


Le indagini sull’assassinio del vescovo che aveva raccontato al mondo la grande persecuzione degli anni Ottanta si trasformano in un inquietante caso giudiziario. Con minacce agli inquirenti e ai testimoni, spie, piste ecclesial-politiche e coinvolgimento degli apparati militari


di Gianni Valente


Nel carcere di Città del Guatemala ci sono un sacerdote, due militari, un agente dei servizi segreti e una anziana cuoca indagati come responsabili e complici del delitto di Juan José Gerardi Conedera, il vescovo ausiliare di Città del Guatemala trovato ucciso nel garage della sua residenza, la casa parrocchiale della chiesa di San Sebastián, la notte tra il 26 e il 27 aprile 1998. Ma se chiedete cosa ne pensa a Mario Enrique Ríos Montt, il vescovo che ha preso il posto di Gerardi, lui avvicina il pollice a pochi millimetri dall’indice, e dice: «La mia speranza che il caso si risolva ormai è ridotta così. Si è perso troppo tempo prezioso, all’inizio delle indagini, a lavorare con l’unico intento di nascondere gli indizi che portavano alla pista del delitto politico».
Si scattano foto-ricordo davanti alla cripta in cui è sepolto il vescovo Gerardi

Si scattano foto-ricordo davanti alla cripta in cui è sepolto il vescovo Gerardi

Anche lo scorso 26 aprile, giorno del secondo anniversario dell’omicidio, migliaia di fedeli hanno visitato la cripta della Cattedrale in cui è stato sepolto il vescovo amico dei poveri e degli indios, che tutti, qui, definiscono martire. Poi hanno manifestato per le vie della città la loro non sopita attesa di giustizia. Il presidente guatemalteco Álvaro Portillo, all’inizio dell’anno, nel suo discorso d’insediamento aveva posto la soluzione del caso Gerardi in cima alle priorità del suo programma di governo. Ora fa notare che sotto il suo mandato, in soli quattro mesi, le indagini hanno compiuto più strada che non sotto il governo precedente di Álvaro Arzú. Ma l’omicidio Gerardi rimane un mistero irrisolto, pieno di punti oscuri, su cui getta la sua ombra tutta la tragica storia recente del Guatemala. Un caso nazionale con implicazioni ecclesial-politiche, che spiegano anche i tentativi di insabbiamento e manipolazione da cui il travagliato corso delle indagini è stato segnato fin dall’inizio. Più dubbi che certezze nell’assassinio di monsignore titola, a due anni dal crimine, il quotidiano nazionale Prensa libre, allineando i particolari più inquietanti o grotteschi di questa «investigación accidentada». Come, ad esempio, i due giudici e i vari testimoni legati all’inchiesta che sono dovuti fuggire all’estero per minacce; o il cane, un pastore tedesco, indagato nella prima fase investigativa come coautore del delitto.

Indagine accidentata
Si era partiti male fin dall’inizio. Quando la notte tra il 26 e il 27 aprile Gerardi viene trovato con la testa fracassata, la faccia sfigurata, in una pozza di sangue, nel garage della sua residenza, la scena del crimine diviene presto un porto di mare in cui si aggirano senza controllo funzionari del pubblico ministero, poliziotti, giornalisti, infiltrati dei servizi segreti militari, preti, semplici fedeli. I responsabili dell’Oficina de derechos humanos, l’organismo dell’arcidiocesi che Gerardi stesso aveva ispirato e promosso, descrivono in un recente rapporto sul caso Gerardi tanta sciatteria, secondo loro montata ad arte: «La scena non fu controllata adeguatamente, il che permise a un certo numero di persone di contaminare alcuni dei pochi indizi che si riuscirono a trovare. Molti incaricati dell’indagine camminavano sopra le tracce di sangue, altri manipolavano senza la minima precauzione reperti, come una grossa pietra rinvenuta nel luogo».
Due giorni prima dell’omicidio, Gerardi aveva presentato ufficialmente il rapporto Guatemala: Nunca más, frutto del paziente lavoro della Commissione interdiocesana per il recupero della memoria storica. Nei quattro volumi venivano descritte anche le gravi responsabilità dei governi e dell’apparato militare nelle stragi di civili avvenute durante la guerra civile, soprattutto nei primi anni Ottanta. Molti, fin dall’inizio, collegano l’assassinio di Gerardi al Progetto interdiocesano di recupero della memoria storica da lui ispirato negli ultimi anni. Ma il primo pubblico ministero incaricato del caso, Otto Ardón, privilegia altre piste. Spiega ancora il rapporto della Oficina: «La mattina stessa dopo l’omicidio, iniziarono speculazioni da parte di membri al più alto livello dell’esercito e del governo della Repubblica, che a bassa voce confidarono che il delitto del vescovo era stato un crimine passionale [...]. In seguito, accuse dirette di omosessualità contro don Mario Orantes e monsignor Gerardi vengono lanciate da giornalisti di un certo tipo, come Luis Pérez, editorialista di estrema destra, Fernando Linares Beltranena, sul libro paga dei membri dello Stato maggiore presidenziale, che chiedono il suo aiuto in questo caso, e un giornalista del Miami Herald». Sulla base di queste voci, il pubblico ministero Ardón fa arrestare con enorme dispiego di forze don Mario Orantes, un sacerdote che condivideva la residenza parrocchiale di Gerardi e che ha dato per primo l’allarme dell’omicidio, accusandolo di delitto passionale. Finisce in carcere, come complice, anche Margarita López, la cuoca della casa parrocchiale. L’accusa si regge su un teorema grottesco: alcune delle ferite fotografate sul volto martoriato di Gerardi vengono “interpretate” come morsi di cane, e Orantes possiede un vecchio e debole pastore tedesco, Baloo, la cui malandata dentatura viene sottoposta a minuziosi esami. Per liberare il campo da questi depistaggi, l’arcidiocesi autorizza una misura dolorosa per tutti i fedeli: la riesumazione del corpo di Gerardi, che già riposava in pace nella cripta della Cattedrale, per una nuova autopsia. I nuovi esami mostrano che anche i presunti morsi canini sono in realtà colpi da oggetto contundente. Ma ci vorranno mesi e la rimozione di Ardón, chiesta anche dall’Oficina a nome dell’arcidiocesi, per disinnescare il depistaggio passionale, che nel frattempo ha tenuto banco sui giornali infangando la memoria di Gerardi.
L’Oficina intanto segue come querellante adhesiva le indagini. Il suo ufficio legale conduce indagini parallele, alla ricerca di testimoni e indizi sul caso.

La pista criminale
Nei primi mesi d’indagine, Ardón sonda anche una pista che attribuisce l’omicidio Gerardi alla criminalità organizzata. Anche in questo caso, il suggeritore della pista è un personaggio ambiguo, Carlos Solís Oliva, ex membro del servizio segreto militare. Secondo questo scenario, Gerardi sarebbe stato ucciso perché aveva scoperto i traffici sporchi di una nipote del cancelliere di curia, dedita al furto di immagini sacre e ad altre ruberie ai danni della Chiesa, in combutta con la banda criminale conosciuta come Valle del sol. Anche questa ipotesi viene liquidata per mancanza di indizi concreti.

29 aprile ’98: migliaia di cittadini partecipano ai funerali 
di monsignor Gerardi

29 aprile ’98: migliaia di cittadini partecipano ai funerali di monsignor Gerardi

La pista militare
Annota il rapporto dell’Oficina de derechos humanos: «Il fatto che gli assassini non abbiano lasciato indizi che permettessero la loro identificazione denota che si trattava di persone che conoscevano la macabra arte di ammazzare».
Con il cambio di pubblico ministero, a partire dal gennaio ’99, si iniziano a prendere in esame gli indizi, finora ignorati, che portano alla pista militare.
Fin dall’inizio due clochard abituati a stazionare sul marciapiede davanti alla chiesa di San Sebastián hanno raccontato di aver visto un uomo a torso nudo uscire dal garage di Gerardi all’ora dell’omicidio. Nei primi mesi del ’99 un taxista conferma al nuovo pubblico ministero Celvin Galindo di aver visto la sera del delitto un uomo a torso nudo dentro un veicolo con targa militare, nei pressi della scena del crimine. Intanto, già dalla metà del’98, il sergente maggiore Jorge Aguilar Martínez, membro dello Stato maggiore presidenziale, aveva consegnato all’Oficina de derechos humanos un memoriale in cui si suggerisce la responsabilità militare dell’omicidio. Su richiesta dell’Oficina vengono ispezionati i registri che segnalano i veicoli militari in uscita e in entrata dalla sede dello Stato maggiore presidenziale, adiacente alla parrocchia di San Sebastián. Le note relative al giorno dell’assassinio risultano piene di manomissioni.
Dopo aver indirizzato le indagini verso gli ambienti militari, Galindo è costretto a fuggire in Germania, dopo minacce ai suoi bambini, e abbandona il caso Gerardi. Così come fa di lì a poco il giudice incaricato Donaldo Pelaez, anche lui oggetto di minacce. Dopo mesi di incertezze, il nuovo pubblico ministero incaricato, Leopoldo Zeissig, raccoglie da uno dei testi, il vagabondo Rubén Chanax, una nuova confessione zeppa di particolari inediti. Nel racconto del vagabondo l’assassinio viene descritto come un’operazione di polizia segreta. Sulla base della nuova testimonianza vengono arrestati tre personaggi che il teste dice di aver riconosciuto nel corso dell’operazione: i militari Byron Disrael Lima Estrada e suo figlio Byron Miguel Lima Oliva, insieme all’agente dei servizi segreti Obdulio Villanueva. Lima Estrada era il capo della base militare del Quiché al tempo della repressione degli anni Ottanta. Suo figlio, quattro giorni dopo il delitto, è stato inviato in missione dall’Onu in Argentina e poi a Cipro. Villanueva, secondo la testimonianza di Chonax, in occasione del delitto avrebbe filmato con una cinepresa la posizione del cadavere. Lo specialista dei servizi segreti presenta a sua difesa un alibi che sembra di ferro: la notte del delitto lui era detenuto nel carcere di Antigua Guatemala, condannato per l’assassinio del lattaio Haroldo Sas Rompiche. Ma lo scorso 6 aprile un suo compagno di cella smonta il suo alibi, rivelando che il giorno dell’omicidio Villanueva aveva lasciato la cella e vi aveva fatto ritorno il giorno dopo. Il detenuto aggiunge che Villanueva poteva uscire e rientrare nel carcere quando voleva, grazie alle sue coperture.
I due militari e lo specialista dell’intelligence sono stati rinviati a giudizio lo scorso 19 maggio. In precedenza, erano stati rinviati a giudizio anche il sacerdote Mario Orantes e la cuoca Margarita López. Per don Orantes, messa da parte la pista passionale, restano i sospetti di complicità o almeno di reticenza. Possibile – ci si chiede – che durante l’aggressione mortale avvenuta nel garage lui e la cuoca non abbiano visto o sentito nulla? Il vagabondo ha dichiarato anche di aver visto Orantes uscire dal garage poco dopo il delitto. Ma l’arcivescovo della capitale Próspero Penados del Barrio difende Orantes e la cuoca, considerandoli dei capri espiatori. Mentre proprio l’avvocato di Orantes ha accusato il pubblico ministero Zeissig e l’Oficina de derechos humanos di aver politicizzato l’inchiesta, ottenendo che l’organismo della diocesi fosse escluso dalla partecipazione alle indagini in qualità di querellante adhesivo.

Un colpo dal passato
Da questo quadro torbido, fatto di minacce, di personaggi ambigui, di testimonianze rilasciate a singhiozzo, difficilmente uscirà in tempi brevi una soluzione al mistero sulla morte di Gerardi. Questo prete bonario, dalle radici familiari italiane, già negli anni della guerra civile era stato in cima alle liste nere degli apparati militari e paramilitari. Durante le indagini, un ex membro dei servizi segreti militari ha rivelato che anche di recente, presso l’archivio dell’intelligence militare, il fascicolo 29, intestato a Gerardi, continuava a riempirsi di documenti, intercettazioni e verbali dei pedinamenti riguardanti il vescovo. Soprattutto da quando Gerardi aveva dato vita al Progetto interdiocesano di recupero della memoria storica, culminato nella pubblicazione del rapporto Guatemala: Nunca más.


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